Metropolitana di Milano, diversi posti liberi per sedersi, ma i tre passeggeri carichi di bagagli non ci pensano neanche. Si capisce che non sanno se sia il caso di accomodarsi, dato che non hanno presente a che altezza sia la loro fermata, se devono scendere presto o se, invece, la meta è ancora distante. Chiedono aiuto a una giovane, seduta – lei sì -, intenta a leggere un best seller. Seguo la conversazione e capisco subito che il loro viaggio non è certo di piacere.
Sono a Milano per via del cancro che ha colpito uno dei tre, venuti fin qui su raccomandazione di un amico di famiglia, medico. In verità un altro medico li aveva indirizzati a Padova, presso “un centro che è il primo in Italia per queste cose”. Ma poi l’amico medico li ha convinti che era meglio Milano, perché il paziente viene inserito in “un sistema più umano, cioè.. per dire… viene veramente seguito, in tutti i sensi”. I tre passeggeri carichi di bagagli vengono dalla Calabria. Lui avrà cinquantacinque anni, massimo sessanta. Lo accompagnano sua moglie e un giovane poco meno che trentenne, un po’ timido, lo capisci da come chiede le informazioni.
E’ sua mamma quella che parla, che racconta tutto, come se avesse bisogno di tirare le fila dei significati di ciò che sta loro capitando, dopo tante ore di treno e, presumibilmente, tanti difficili preparativi: andranno a stare in un albergo convenzionato, fin tanto che l’uomo non sarà ricoverato per l’intervento e, poi, comunque, resteranno per le terapie, perché “è meglio farle dove ti hanno operato, anche se dicono che, quelle, le fanno uguali dappertutto, che non c’è pericolo”. (t.p.)
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