Era una domenica mattina come tante altre quando mi alzai per preparare la colazione e col sole che già inondava la stanza, programmavo le cose da fare dopo una pesante settimana di lavoro fuori casa. Non lo sapevo ancora ma da lì a poco la mia vita sarebbe cambiata.
Non avvertii nulla se non un fastidio tipico di quando percorro le strade tortuose e in salita di montagna: la sensazione di avere un orecchio chiuso. Aprii la bocca e deglutii con forza ma il fastidio non passava. L’ansia che già provavo cresceva man mano che passavano i minuti. Mi sdraiai con la speranza che quella fastidiosa sensazione di orecchio pieno si dileguasse appena mi fossi rimessa in piedi ma ben presto un forte senso di vertigine cominciò a rendermi anche incapace di stare in piedi. Passai la mattinata a sperare in un semplice e momentaneo episodio di indisposizione ma dopo un po’ i conati di vomito mi rivelarono che era qualcosa di più serio. Essi arrivavano e dirompevano e, dopo brevi pause liberatorie, ricominciavano scuotendomi in modo incontrollabile.
Una brutta sensazione di difficoltà a mettere a fuoco gli oggetti e l’apparente movimento di tutto ciò che mi circondava rese più difficile la situazione. Al pomeriggio, quindi, mio marito decise di portarmi al Pronto Soccorso del Policnico di Padova. Stavo male e avevo costantemente lo stimolo del vomito. Ciò mi creava imbarazzo perché l’idea che mio marito non riuscisse a spingere la carrozzina su cui ero seduta in tempo ad evitare il momento di vomito davanti a tutti mi faceva aumentare la tensione e il malessere. Intorno a me vedevo le persone con i contorni indistinti. Mentre mi osservavano pensavo che forse, avendo capito che avevo crisi di vomito, sperassero nel mio autocontrollo.
Il codice magenta che mi venne assegnato fece si che la mia attesa durasse solo poco più di un’ora e mezza e, finalmente, mi distesero su un lettino in uno degli ambulatori. Non stavo meglio ma almeno potevo soffrire senza preoccuparmi degli sguardi della gente intorno. Mi visitarono, prelevarono campioni di sangue come di routine e mi mandarono da un otorino. Speravo a questo punto che in questo nuovo ambulatorio si trovasse finalmente un rimedio al mio problema che via via andava peggiorando; invece il giovanissimo medico che mi trovai davanti banalizzò la situazione e si limitò a guardarmi solo all’interno dell’orecchio sinistro da cui, ormai, non riuscivo a sentire più niente. Azzardò una improbabile diagnosi: raffreddamento. Mi prescrisse quindi aerosol e antistaminico e mi consigliò di ritornare il giorno dopo qualora il disturbo non fosse passato. La strada per arrivare a casa fu piena di soste, le pause tra un conato e l’altro erano diventate ancora più brevi.
Il giorno dopo non solo non stavo meglio ma addirittura non riuscivo a reggermi neanche con l’aiuto di mio marito. Ogni giorno stavo peggio e la mattina del giovedì successivo arrivammo di nuovo al Pronto Soccorso, stavolta decisi a farmi ricoverare a tutti i costi visto che ormai non mi alimentavo e non bevevo più da giorni.
Non ci sentivo più dall’orecchio sinistro, intorno a me girava tutto, la mia capacità visiva era alterata, ero disidratata e incapace di reggermi persino in carrozzina. Vomitai altre due volte mentre chiedevamo all’infermiera del reparto di farmi ricoverare. Finalmente, rendendosi conto che stavo proprio male, decise che fosse il caso di approfondire il mio problema e mi fece assegnare un posto letto.
Cominciarono subito con un esame audiometrico che rivelò che avevo perso completamente l’udito all’orecchio sinistro per cui ipotizzarono potesse trattarsi di Sindrome di Meniere. Quel giorno il mio morale andò in frantumi e cominciai a temere che potesse solo peggiorare. Poco più tardi ricoverarono nella mia stanza una signora anziana che mostrava segni di demenza. Dopo un po’ che andava su e giù per la stanza, mettendo in agitazione le infermiere e stimolando ancora di più il mio senso di vertigine, si mise a letto ma ebbe un arresto cardiaco. La mia pressione s’impennò paurosamente quando arrivò l’anestesista per intubarla e farle il massaggio cardiaco. Qualcuno si dovette occupare anche di me dandomi dei sedativi e ipotensivi. Il giorno dopo fui visitata dal primario e dalla sua equipe. Il suo atteggiamento ostentava sicurezza e professionalità e alla mia domanda se potevo recuperare l’udito, l’illustre e calvo professore mi rispose subito che, dato il tempo che era passato dall’esordio del problema, era molto improbabile che ciò accadesse e che questo era avvalorato dal fatto che nella sua rispettabile carriera trentennale non si erano mai verificati recuperi del genere.
Questa sua affermazione mi prostrò ulteriormente nel morale e il non aver più la possibilità di sentire da un orecchio, oltre alle complicazioni collegate, mi faceva sentire vulnerabile e isolata. La mia nuova condizione di ipo-udente aveva modificato la mia prospettiva di vita: non ero più una persona che, forte delle sue capacità, affrontava il futuro, ma un essere fragile che aveva bisogno degli altri per poter fronteggiare un sopraggiunto difetto.
I quindici giorni di ricovero non migliorarono il mio udito e il ronzio che si era insinuato nell’orecchio malato era diventato stabile e insopportabile. Tornai a casa incapace di reggermi in piedi da sola ma soprattutto con nessuna voglia di reagire e quasi anche di vivere. Iniziarono gli incubi notturni e le manie di verificare con frequenza, tappandomi l’orecchio sano, cosa riuscissi ancora a sentire con l’altro: nulla, non sentivo più nulla; sprofondavo nel silenzio più assoluto! Una sensazione di solitudine e di panico si impadroniva di me e mi terrorizzava. Continuavo allora ad assumere i farmaci come indicato dai medici aggiungendo quelli antidepressivi . Dopo circa un mese, quando arrivai a fare il primo controllo audiometrico, mi sorpresi e mi risollevai nell’accorgermi che durante il test ricominciavo a sentire in modo flebile di nuovo “qualcosa”. Quei lontanissimi e metallici toni che sentivo in lontananza nelle cuffie mi sorpresero e mi fecero intravedere un barlume di speranza. Con un timido e ritrovato entusiasmo continuai allora a prendere i farmaci e al successivo controllo mi trovarono ancora un pochino migliorata.
Fu così che, piano piano, riuscii a recuperare il 40% dell’udito perso e a quel punto il mio primo pensiero fu di trovarmi di nuovo di fronte a quel primario. Nel rispondere alla mia domanda, in piedi davanti al mio letto e circondato dai suoi giovani e adoranti assistenti, aveva ostentato così tanta sicurezza e distacco da farmi escludere qualsiasi possibilità di miglioramento: le sue parole mi avevano trafitta e tolto la speranza. E’ per questo che pensai a lui quando mi resi conto che ricominciavo a sentire, per dirgli che ero quella paziente che gli mancava nella sua esperienza trentennale: una che ha riacquistato parzialmente l’udito anche dopo tanti giorni dall’episodio scatenante. ( A. T. )
Un imprevedibile recupero dell’udito
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