Qualche giorno fa a Milano si è manifestato, tra le altre cose, per “ il riconoscimento del ruolo che ha svolto e svolge la sperimentazione animale nella ricerca di base e nello sviluppo delle terapie”. Una persona dello staff di C&P è capitata lì e in questo post racconta come ha vissuto quei momenti.
Uno dei miei rari sabati milanesi. Giro per il centro con un’amica. In piazza dei mercanti palloncini azzurri e un discreto raggruppamento di persone attirano la nostra attenzione.
Dopo i palloncini, ciò che noto sono i camici bianchi che intermezzano abiti più consueti per una piazza. Si muovono dentro una ben definita porzione del pubblico, ma stanno anche sullo stage ricavato dal quel porticato che, lo scorso inverno, abbiamo tante volte visto magicamente attrezzarsi all’imbrunire per accogliere sonni abusivi e contestatori del nostro benvedere finto-metropolitano.
La terza cosa che colgo è il rosso di alcune magliette, concentrate entro un ridottissimo spazio. Le indossano persone che armeggiano con striscioni, megafoni, fischietti e ugole. In mezzo a tutto ciò – me ne accorgo solo dopo che ci siamo addentrate nella folla – ci sono poliziotti che in parte fanno muro e in parte sembrano starsene lì a far palleggi con un groviglio di noia e perplessità. Chissà dove lo trovano il senso per quello che fanno, mi chiedo, e chissà da che parte stanno o se stanno proprio dalla parte in cui sentono di dover stare. In quale sentono di dover stare è poi un’altra bella questione. E perché dovrebbero mai sentire di dover stare da qualche parte è invece la vera questione, cioè la mia in quel momento, lì, da dentro pressata dai sospetti.
Ci muoviamo facendoci largo, senza troppa fatica in realtà, e scopriamo un’altra categoria di astanti: i reporter e i giornalisti, dotati di videocamere e microfoni, lenta mobilità e sguardi lunghi sopra le teste ed oltre gli striscioni. Chissà cosa vedono, cosa riconoscono, cosa selezioneranno in questa scena che a me sembra così complicata, in cui l’unico contenuto sin dall’inizio chiaro è che un gruppo nutrito di persone rivendica legittimità per i propri ruoli sociali e un altro gruppo, sparuto, cerca di disturbarne l’azione, contenuto da un terzo gruppo, decisamente più numeroso, che si pone come confine tra due libertà, mostrando la sicurezza di chi crede che lo sconfinare pericoloso sia solo quello fisico, e di chi pensa di poter non scivolare, mai, né di qua e né di là.
Tutto questo forse un po’ ci diverte; o forse non esattamente. Comunque ridiamo. Forse, però, non ridiamo d’altro che di noi, perché non sapremmo da che parte stare, se dovessimo scegliere. O magari, meno nobilmente, ridiamo perché ci siamo lasciate sorprendere dalla scienza scesa in piazza ad affermare la necessità della sperimentazione.
Benché in quel momento io non ignorassi affatto gli studi che hanno mostrato come la ricerca non si faccia dentro le quattro pareti di un laboratorio, come la scienza sia sociale e come, per raggiungere i propri obiettivi, essa abbia bisogno di arruolare attori esterni e vari, tuttavia davo per scontato che la sua comunicazione percorresse altre vie, lontane dalle piazze, più mediate e leggermente meno mediatiche (dovrei leggere di più al riguardo, decisamente).
Ci siamo soffermate qualche istante in più punti della scena. Abbiamo per esempio ascoltato la sfilza di dati presentati da un camice bianco sulla ribalta. Si sosteneva la tesi della necessarietà della sperimentazione animale giustificandola con argomenti legati al miglioramento delle aspettative di vita nei secoli, fino alla costante progressiva diminuzione dell’incidenza di ben note e temute malattie attuali. Insomma, qui abbiamo messo meglio a fuoco la questione, capito cosa veniva rappresentato da quella parte: “l’importanza della sperimentazione animale per la ricerca biomedica”. Protagonista della manifestazione era un’associazione no-profit che si chiama PRO-TEST Italia. E a un nome così nessuno può negare quantomeno un sorriso.
La scelta di difendere in piazza la sperimentazione, comunque, continuava a riempirmi di perplessità. Mi sono sentita un po’ ingenua e un po’ troppo ignorante. C’era da rifletterci, su questo mio spiazzamento, da chiedersi quali ne fossero i presupposti. Invece mi è tornato in mente solo un breve scritto di Jacob Bronowski, del ’48 (l’avevo letto pochi giorni prima in realtà, per questo l’avevo presente). Siamo in epoca post-atomica e lo studioso contesta la paura della scienza, che sembra prevalere nella maggior parte delle persone e che egli identifica con la “paura del futuro”, riconducendola dunque ad una matrice profonda, ben oltre la connessione con la guerra atomica. La riconduce, più precisamente, alla distanza tra noi e la scienza, tra scienza e vita quotidiana.
Bronowski sostiene la comprensibilità delle idee della scienza, da parte di tutti. E mi è parso che quei camici bianchi si ponessero nel solco di tale idea, dal momento che incentravano la comunicazione sulle lacune conoscitive dei profani in merito a cosa la sperimentazione animale sia davvero. Sono lacune che, pare, dovremmo colmare, per poter condividere un percorso, il civile impegno alla costruzione di sempre migliori condizioni di vita e blabblà.
Ma, vedete, signori, sono i vostri camici bianchi indossati anche qui dove non servono (ehm… non servono?), cioè qui ora che non state propriamente lavorando, sono questi che mi infastidiscono alquanto e mi lasciano sospettare che non avete compreso neppure che è l’asimmetria a spaventare, la distribuzione non dialogica dei saperi, il controllo di un gruppo sociale su un altro.
Insomma, giovani scienziati sembrano esser lì a tentare di istruire la piazza.
Ma da chi era composta quella piazza? Forse da profani, ma più probabile che fossero in gran parte addetti ai lavori. Sotto i palloncini azzurri (ma, dico, proprio azzurri dovevano essere? a Milano??), infatti, sparsi sulla porzione ampia della folla divisa dal cordone di poliziotti, erano individuabili, come ho detto, parte degli stessi camici bianchi, i quali dunque – area disturbatori a parte – si distribuivano un po’ ovunque, sia nello spazio della scena e sia nello spazio del pubblico, oltre che, ovviamente, in quello del retroscena.
Insomma, qui giovani strateghi si divertono a costruire simboliche configurazioni del reale, a giocare con le più grossolane regole della persuasione, e trascurano di tematizzare in profondità i destinatari della propria comunicazione.
Però, magari, se stanno anche tra il pubblico, lo fanno davvero per “parlare” più direttamente con la gente, dai! Allora ci addentriamo. Vedo un giovanissimo camice bianco con dei volantini in mano e gliene chiedo uno. Pronta a farmi raggiungere da una valanga di parole, gli dico: “scusa, me ne daresti uno? Vorrei capire di che si tratta…” e mi porge il pieghevole mentre uno accanto a lui, senza camice, mi dà un A4 contenente sul fronte un questionario dal titolo “OMG! Quiz! Quanto ne sai di sperimentazione animale? Mettiti alla prova con questo test!” e sul retro le soluzione, con la scritta “…Adesso conta il numero di risposte esatte e scopri quanto sei esperto!”. Anche qui sarebbe molto da divertirsi, con le considerazioni sui contenuti del foglio. Ma ora la questione era un’altra: nessuno dei due giovani ricercatori presunti mi dice alcunché! Nessun commento, nessun tentativo di attaccare bottone. Benone!
In realtà ci resto un po’ male. E dunque finalmente ci portiamo oltre il muro di uomini, nel gruppetto dei contestatori, gli animalisti con le bandiere nere e il teschio, e urla della serie “all’assassiiiiino! All’assassiiiiiiiiiiino!”. Sì, perché erano così numericamente minimi che c’era da credere che molti loro colleghi fossero già scappati, per la paura di finire tra le mani assetate di sangue degli scienziati.
Però in quei momenti li ho ammirati. Per il fatto di saper urlare e, prima ancora, per il fatto di sapere da che parte stare, poi per il fatto di dedicarci del tempo, alla loro causa, per aver scelto di esser lì.
Devo confessare il sospetto che questo mio attacco di romanticismo fosse comune anche tra gli operatori presenti, cronisti e simili – almeno quelli riconoscibili -, perché si aggiravano più in quella minima porzione di spazio che altrove. Boh. In ogni caso, credo che per questi gli animali non c’entrassero molto. Magari anche a loro “hanno raccontato che la scienza è misteriosa e difficile”, come dice Bronowski, o forse è solo che i camici bianchi urtano anche loro.
Ma ecco che è in corso un’intervista privata a un attivista… Sembra essere su una specie di podio, o di cubo, non so bene come vederlo. Noi scivoliamo accanto lentamente, indecise tra il restare a farci un’idea più approfondita e l’andarcene via. Il caso vuole che passiamo proprio mentre con una certa concitazione l’uomo spiega alla telecamera: “se è vero che la sperimentazione è necessaria, perché non sperimentano su pedofili e assassini?? Eh?!?”.
Ops. (T.P.)
Sperimentazione biomedica. Ricercatori contro animalisti
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