“Tamburi di latta”

Abbiamo raccolto la testimonianza con la quale un’operatrice sociale di grande esperienza e umanità, Franca Franzin, ci apre uno spiraglio sul quel mondo del disagio mentale che tenta, con esperienze come quella raccontata, di uscire dall’isolamento ipocrita in cui è costretto.  

L’idea, ci racconta Franca, è nata nei primi anni Duemila ed è consistita nel formare un gruppo teatrale, costituito da pazienti del C.S.M. ( Centro di Salute Mentale) e da persone che avessero voglia di cimentarsi con il teatro. Occupandosi in quegli anni soprattutto di lavoro sul territorio e coltivando la passione per il teatro, Franca immaginò che l’attività teatrale potesse produrre “ben-essere” non solo negli spettatori ma anche negli attori protagonisti. Trovò il regista, Stefano Della Zanna, disponibile a farlo gratuitamente, che cominciò all’inizio con delle lezioni sulla mimica, sul gesto in quanto tale, perché, a parte Franca e pochi altri, nessuno aveva fatto esperienze teatrali. Il gruppo di partecipanti era costituito per metà da utenti del C.S.M. e per metà da semplici amatori del teatro, compresi alcuni operatori sociali.
Dopo una preparazione fatta di esercitazioni e prove condotte in una palestra, il gruppo, che nel frattempo aveva assunto il nome di “Tamburi di latta”, cominciò a costruire una rappresentazione basata sul testo di Ibsen “Casa di bambola”, incentrata però più sull’uso della gestualità che sulla parola. Altro elemento determinante nella messa in scena era rappresentato dalle musiche che riuscivano a sottolineare i gesti, toccando in profondità l’animo degli spettatori e rendendoli molto partecipi. La partecipazione da parte delle persone coinvolte è stata fin da subito completa e duratura, considerando l’impegno settimanale.
Al debutto il  Teatro Elios di Scorzè  era gremito e nonostante qualche piccola crisi di panico fra i debuttanti attori prima dell’entrata in scena, fu un grande successo. Da lì in poi i “Tamburi di latta” furono chiamati in diversi teatri a rappresentare questa pièce originale e, quando i tempi lo consentivano, al termine dello spettacolo facevano intervenire qualcuno del pubblico, ispirandosi al Teatro del Lemming, famoso per far partecipare gli spettatori. Nel loro caso, gli spettatori erano invitati a raccontare le emozioni vissute ed evocate dallo spettacolo a cui avevano appena assistito e questo rappresentava anche una specie di feed-back per la Compagnia, la possibilità di elaborare a loro volta gli effetti provocati dallo spettacolo. Le reazioni del pubblico erano alquanto diverse: c’era chi parlava di un’ansia procurata e chi, travolto dall’emozione, era costretto a uscire dal teatro. Il testo teatrale era stato rivisto e orientato a “rappresentare” cosa succede in una persona quando interviene un disagio psichico, una rappresentazione che se è risultata forte sul piano emozionale per gli spettatori lo è stata ancor di più per chi quel disagio lo prova sulla sua pelle. Infatti la libertà del gesto, unito al coinvolgimento musicale, ebbero un vero e proprio effetto terapeutico su di essi in quanto, dice Franca, “ mettere in scena il disagio diventava, come dire, vabbè mi alleggerisco, lo butto fuori, lo condivido”.
Eppure questi effetti terapeutici, testimoniati dal minore ricorso alle cure del C.S.M. da parte dei partecipanti al progetto, non furono mai riconosciuti dai medici psichiatri che li avevano in cura. Nonostante non fosse difficile immaginare che il ruolo di attori, riconosciuto dal pubblico e dalle numerose repliche, aumentasse il livello di auto-stima di queste persone, con benefici risvolti sul piano dell’umore, gli psichiatri non vollero mai assistere alle rappresentazioni. Solo uno di loro acconsentì una volta a vedere lo spettacolo e non a caso diventò poi un sostenitore dell’iniziativa, assieme al primario del Dipartimento che, per primo e da solo, diede sostegno al progetto, convinto com’era dell’utilità del lavoro sul territorio, oltre che in reparto. Purtroppo, una volta che il primario terminò il suo mandato in quell’Asl, venne a cadere anche l’unico supporto in ambito medico. Gli altri psichiatri, pur non ostacolando il progetto, lo ritenevano inutile e perciò non presero in considerazione le segnalazioni da parte degli operatori dei miglioramenti osservati nelle persone disagiate.
In risposta alla richiesta di specificare la natura del miglioramento, la nostra interlocutrice ci ha raccontato che soprattutto era il tono dell’umore a beneficiare dell’attività teatrale, ma non solo. Nello spazio costituito dalla ribalta teatrale, le persone “potevano essere se stesse, all’infuori di quello che gli veniva richiesto” magari in ambito familiare o in altri contesti sociali. Così come recitare un ruolo “classico”, tipo Cyrano de Bergerac, comporta il doversi attenere in modo stringente al testo, così ognuno di noi si attiene al ruolo che, di volta in volta, ricopre nella vita quotidiana. Nel caso del laboratorio teatrale allestito dai “Tamburi di latta” la messa in scena consentì “la liberazione di quello che ti sta dentro, perché quando non hai un copione da seguire, segui te stesso..il laboratorio ti libera perché tu fai quello che ti senti di fare”. Con l’aiuto del regista, ognuno poteva, in totale libertà, esprimere con un gesto una parte del testo e quel gesto sarebbe stato poi utilizzato durante la rappresentazione. Questo è fortemente liberatorio per tutti ma lo è particolarmente per chi normalmente non può farlo senza essere sanzionato socialmente.
La Franzin ricorda bene “ come arrivavano e come cambiavano dopo un po’ che cominciavano a recitare, quanto erano anche nella mimica facciale più rilassati, quanto erano più sorridenti e quanto alcune persone, mi ricordo in modo particolare qualcuno, era preso, rapito, da questa rappresentazione che davvero sembrava spaziasse forse anche in qualcos’altro”. Ma nessuno dell’equipe medica ha mai tentato di valutare in termini clinici questi cambiamenti che, peraltro, si manifestavano anche nel corso di altri laboratori.
Abbiamo chiesto a Franca come mai avesse scelto proprio il teatro come laboratorio e ci ha raccontato come, grazie alla sua personale passione per questa forma artistica, avesse assistito a spettacoli portati in scena da persone affette da malattie mentali, in particolare di un gruppo triestino che aveva allestito una pièce descrittiva di una giornata trascorsa in un manicomio. Il confronto con questa iniziativa fu sicuramente utile anche se, tiene a sottolineare Franca, il laboratorio teatrale dà più libertà. Inoltre, a differenza dell’esperienza triestina, il pubblico era all’oscuro delle storie personali degli attori e questa scelta di proteggere la privacy delle persone coinvolte costò alla Compagnia la possibilità di avere un contributo per la stampa delle locandine da parte dell’Asl che, in cambio, pretendeva la presenza sui volantini di un riferimento alla struttura psichiatrica.
Questo ed altri esempi di ottusità burocratica hanno costellato la storia dei “Tamburi di latta” che, infatti, dopo cinque anni di sforzi e sacrifici, si è conclusa nell’indifferenza di quanti potevano dare una mano a chi con dedizione ed altruismo tenta di rendere meno isolate le persone colpite dal disagio psichico.

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