Prosegue la visita ad alcuni Pronto Soccorso della provincia padovana. Questa volta siamo nell’Ospedale di Cittadella, cittadina a trenta km dal capoluogo. Chi ha letto i post precedenti su quelli di Padova e Camposampiero troverà facilmente le analogie e le differenze fra le strutture e, in parte, anche tra le situazioni descritte. Se queste descrizioni evocheranno ricordi, esperienze, storie che vorrete condividere le accetteremo molto volentieri come contributo alla riflessione comune sul Pronto Soccorso che faremo al termine del viaggio.
Quando arrivo davanti l’ospedale, dopo una rampa in leggera salita, vedo una grande tabella blu con una croce rossa in campo bianco, con la scritta Pronto Soccorso. Alla sommità della rampa c’è una zona in piano, coperta da una tettoia, dove c’è l’ingresso.
L’ingresso è custodito da una porta a vetri automatica che è inserita in una parete anch’essa di vetro. Entro e mi trovo in una stanza ampia di forma regolare. Le pareti sono dipinte di verde per la metà inferiore e di giallo pallido per quella superiore. Sulla mia sinistra c’è un muretto basso, lungo circa due metri, accostato al quale c’è una barella vuota; più avanti due sedie a rotelle. Il muretto delimita parzialmente una zona con tre file di quattro sedili ciascuna. C’è un uomo di circa 50 anni seduto su una carrozzina, di là della barella. Non sembra sofferente e conversa con due donne che lo accompagnano, sedute sui sedili della fila di mezzo. Di fronte c’è un’altra fila di sedili da sei posti e sul muro alle spalle ci sono: una piccola bacheca di sughero con affisso l’orario del bar, due grandi manifesti pubblicitari (uno di un negozio di calzature, l’altro di un’agenzia infortunistica) e due piccoli dell’ASL riguardanti norme dell’INPS e il pagamento del ticket. In alto è fissato un tabellone elettronico, spento.
Su questa fila sono sedute tre donne e un ragazzino. Sono tutti stranieri, dal colorito della pelle e dalle parole che riesco a sentire si direbbero brasiliani o comunque latino-americani. Le donne conversano pacatamente fra loro, il ragazzino gioca con un video-gioco. Si capisce che è annoiato.
Sulla parete di sinistra c’è un ampio sportello chiuso da una vetrata, con una piccola apertura in basso per passare documenti. Sulla vetrata c’è un foglio stampato che dice: “IL TRIAGISTA NON E’ RESPONSABILE DEI TEMPI DI ATTESA”. Mi chiedo se tutti sappiano chi è il triagista e cosa faccia. Sopra la vetrata c’è un orologio analogico. Sul lato sinistro della vetrata ci sono due manifesti: uno pubblicitario di un agenzia di infortunistica stradale, l’altro dell’ ASL. Sul lato destro una porta dà accesso alla stanza di accettazione perché in realtà lo sportello è inutilizzato. Sopra la porta c’è uno schermo elettronico dove compaiono alternativamente le scritte “ATTENDERE” in rosso e “AVANTI” in verde, quest’ultima accompagnata da alcuni “bip” sonori. A lato dello schermo, una telecamera punta al centro della stanza. In alto sulla parete, a destra e sinistra, sono fissati due climatizzatori. Guardando attraverso il vetro vedo una stanza piuttosto piccola dove non ci sono vetri divisori. Oltre alla porta che mette in comunicazione con la sala di attesa degli utenti ce n’è un’altra che conduce agli ambulatori. All’interno, sotto la vetrata, un bancone con il monitor di un pc ed uno strumento per la lettura dei codici a barre. Su una parete sono appese tre cartine topografiche che si riferiscono al territorio cittadellese. Mentre mi siedo nell’ultima fila dei sedili, una voce maschile da un altoparlante chiama il cognome di un paziente e indica il numero dell’ambulatorio, dove dovrà recarsi. Il volume dell’altoparlante è molto alto, al limite della distorsione della voce.
Nella prima delle tre fila di sedili sono sedute due donne adulte. Si sentono un paio di “bip” sonori ed una delle due fa per alzarsi ma l’altra la ferma prontamente dicendole: “Guardi che tocca a me” e si reca verso la porta dell’accettazione. L’altra rimane in piedi, con l’aria un po’ interdetta ma non dice nulla e si mette vicino allo sportello di vetro, in attesa, per far capire che la prossima sarà lei. Mi accorgo che non c’è un sistema di regolazione dell’ordine di attesa. Dopo qualche minuto un paio di “bip” e la scritta “AVANTI” l’avvertono che può entrare. Intanto entra nel P.S. una giovane donna, sola, che si copre un occhio con un fazzoletto. Guarda verso lo sportello a vetri con atteggiamento un po’ sofferente e un po’ impaziente. Dopo circa dieci minuti di nuovo i “bip” sonori, allora la donna con l’occhio coperto chiede alle donne straniere se debbano entrare e alla loro risposta negativa entra in accettazione. Si sente l’infermiera che le chiede alcuni dati, il domicilio, il numero di telefono.
Sulla parete di fronte all’entrata c’è una porta a vetri con su scritto “ ACCESSO AMBULATORI”.
Premo un grosso pulsante rosso al lato della porta e questa si apre a metà di un corridoio. Quasi di fronte mi trovo un’analoga porta, in vetro opaco, con sopra la dicitura “RADIOLOGIA”. Verso sinistra si aprono due stanzini, senza porta, per l’attesa degli utenti prima di essere chiamati in ambulatorio. In uno dei due c’è una barella, nell’altro alcuni sedili di plastica lungo le pareti. Verso destra si vede in fondo al corridoio una porta con la scritta “AI REPARTI” mentre a sinistra del corridoio c’è un’altra porta a vetri opachi che porta agli ambulatori dove avviene la visita degli utenti.
Torno nella sala di attesa e a sinistra, dalla parte opposta allo sportello di accettazione, si trova la porta del bagno. In alto, c’è un vecchio televisore ,spento. A lato della porta c’è un manifesto dell’ASL che spiega le regole di “triage”, cioè di accesso al P.S. Più avanti si trova una ampia porta automatica a vetri opachi con la scritta: “ SALA EMERGENZE”. All’interno è buio (presumibilmente non c’è nessuno).
Varco la porta del bagno e mi ritrovo in un piccolo antibagno con un lavello, un porta salviette vuoto ed un cestino. Un cartello redatto in nove lingue invita a lavarsi bene le mani.
Da qui un’altra porta conduce nel bagno, uno stanzino quadrato, senza finestra, con le pareti rivestite di piastrelle bianche fino a metà altezza. Oltre al w.c. c’è un porta carta igienica (vuoto). Appoggiato su un termosifone un po’ arrugginito c’è un grande rotolo di carta igienica, difficile da maneggiare. Non ci sono maniglioni per persone disabili.
Arriva una vettura privata sulla rampa. Una signora entra, prende una carrozzina vuota e esce. Dopo un po’ rientra con un’altra donna più giovane, spingendo la carrozzina dove è seduto un uomo sui 60 anni con una fasciatura che gli copre la testa. La donna giovane ha in mano una “ricetta rossa” ( potrebbe essere l’impegnativa del medico di base). I tre parlano a bassa voce fra loro, non sembrano particolarmente allarmati o frettolosi di entrare. La fasciatura dell’uomo è ben fatta, con una garza bianca sormontata da quelle retine elastiche che fissano le fasciature.
La signora con l’occhio coperto viene chiamata nell’ambulatorio n°2. Intanto entra zoppicando una donna aiutata da una ragazza giovane. La gamba claudicante non presenta ferite. Si siedono vicino alla porta dell’accettazione, il viso della donna indica sofferenza. Le due non parlano. La ragazza giovane regge la gamba della donna in posizione orizzontale e intanto guarda con insistenza all’interno della stanza di accettazione, quasi a volersi far notare.
“Bip” sonoro e scritta “AVANTI” lampeggia, entrano la donna zoppa e la ragazza. Dopo poco la ragazza esce a prendere una delle carrozzine vuote e rientra in accettazione.
Intanto entra in P.S. una coppia di africani, uomo e donna, giovani. Lei porta in braccio una bambina piccola (3-4 anni) con la testa adorna di tanti fiocchetti colorati. La donna ha un aspetto matronale e indossa un abito sgargiante, nero e oro. Mi accorgo ora che non ho fatto caso agli abiti degli altri presenti. L’uomo indossa una polo gialla e jeans ed entrando dice ad alta voce: buonasera! C’è un attimo di silenzio, poi le signore latino-americane rispondono: buonasera! L’uomo dice qualcosa alla moglie che si è seduta nella prima fila ed esce dal P.S. Le signore guardano la bambina che dorme in braccio alla mamma e sorridono con tenerezza. Si scambiano gli sguardi con la madre ma non dicono nulla.
Dalla porta che conduce agli ambulatori esce la signora con il problema all’occhio. Adesso è coperto da una garza tenuta da un cerotto bianco rotondo. La donna va prima in bagno e subito dopo esce dal P.S.
La signora con la gamba inferma esce spinta sulla carrozzina dalla ragazza e viene portata nel corridoio attraverso la porta automatica “ ACCESSO AGLI AMBULATORI”.
“Bip”, “bip”, “AVANTI”. Nessuno si muove. Dico alla signora con la bambina in braccio che tocca a lei ma mi risponde che aspetta il marito. E’ a disagio, continua a voltarsi verso la porta del P.S. per vedere se arriva. Ancora il “bip” risuona. Questa volta la donna con la bambina si alza ed entra. Di là del vetro sento che in un italiano molto stentato dice “mio marito arriva”. E l’infermiera chiede: “ dov’è marito?”. Finalmente arriva il marito che entra nella stanza di accettazione. Si intuisce che egli fa un po’ da interprete con l’infermiera e dopo poco escono tutti e tre. La donna ha al polso un braccialetto di plastica bianca. Guardo intorno e mi accorgo che anche una delle signore latino-americane ne ha uno al polso. Penso che abbia a che fare con lo strumento che avevo visto sul bancone dell’accettazione. Vado via pensando che dopo aver indossato il braccialetto sembravano tutti più rilassati, compresi gli accompagnatori.