recensione del film di Antonio Morabito (Cinecittà Luce, Italia, 2013)
Anni fa in Italia, fra i vari generi cinematografici, era presente anche quello definito “cinema civile” che trattava temi sociali e politici, prima di essere sommerso dalle produzioni dal più facile ritorno economico. Ogni tanto però, riemerge grazie a qualche produzione coraggiosa come il film di Antonio Morabito, di cui vi proponiamo la recensione del nostro Fabio Milani, che tratta di un tema già più volte affrontato da C&P, quello del delicato rapporto fra l’industria farmaceutica e la sanità pubblica.
Vi si descrive la storia di un informatore medico che opera per un’azienda farmaceutica in difficoltà economiche. Per sopravvivere, la Zafer, questo il nome di fantasia della Compagnia, impone ai propri operatori obiettivi e risultati di vendita sempre più alti, per il cui conseguimento il protagonista ricorre, perciò, a qualsiasi mezzo ed espediente, anche il più illecito, finendo per sacrificarvi la sua stessa vita privata e i suoi affetti.
Assistere al film di Morabito non è piacevole, anzi è un vero pugno nello stomaco, fa rabbrividire, ma – occorre dirlo – è anche salutare e necessario. Impone, infatti, allo spettatore di riconsiderare dolorosamente le pur residue convinzioni e quella già traballante fiducia che possa ancora nutrire nei confronti del nostro sistema medico-assistenziale e dell’industria farmaceutica. Quello che si muove intorno alla nostra salute è essenzialmente un miserabile mondo di medici di famiglia senza scrupoli né, tanto meno, provvisti di etica professionale, farmacisti grassatori e luminari corrotti, informatori scientifici pronti a sacrificare tutto, ma proprio tutto, pur di convincere (o costringere) i loro clienti-dottori a prescrivere il farmaco da loro propostogli e realizzare così i rigidi obiettivi di vendita e di budget aziendali cui sono letteralmente condannati. Non si salva in pratica nessuno dall’analisi spietata del regista che deve conoscere piuttosto bene il verminaio a cui è ridotta la nostra sanità se, a supporto e commento iniziale e finale del suo lavoro, propone anche spezzoni di telegiornali in cui vengono asetticamente riportati stralci di notizie sulle molte indagini giudiziarie in corso e a riguardo. Così, anche l’isolata, eroica figura dell’unico medico che si oppone, nella storia narrata, alle indecenti richieste dell’informatore, finisce per sembrare una ben poco credibile nota difforme, e forse persino illusoriamente consolatoria. In questo quadro, la figura del paziente è solo uno strumento indifeso, un numero privo di rappresentanza, impiegato per realizzare profitti sempre più vertiginosi a beneficio di caste e categorie di profittatori comunque imperseguibili ed impunibili e in cui il ‘comparaggio’, universalmente praticato, è solo una delle tecniche, e talvolta nemmeno la più nefanda, impiegate pur di arrivare a piazzare il prodotto.
Dopo questo film, si potrebbe essere tentati di guardare con un po’ di sospetto il nostro medico, indotti a diffidare dei farmaci che ci prescriverà: ci si potrebbe chiedere infatti se quei farmaci non facciano parte di un accordo col rappresentante della casa farmaceutica, magari in cambio di una crociera, di una cena nel ristorante di lusso, di un i-Pad o di un’auto di grossa cilindrata, come descritto nella finzione cinematografica e, purtroppo, già verificato nella realtà.
Alla fine della proiezione si è forse sostenuti da un solo tenue filo di speranza: la produzione è stata realizzata da una joint-venture svizzero-italiana, due nazioni in cui le multinazionali del settore farmaceutico sono presenze fortissime, ma di cui si è ancora in grado, evidentemente, di denunciare, da parte delle componenti culturali più sensibili ed avvertite, le oscene aberrazioni. (Fabio Milani)
grazie!
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Bel post, mi piace! 🙂
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