Andare nei Pronto Soccorso e prendere nota di come gli utenti vengono accolti, informati ed indirizzati in questo servizio che è percepito come essenziale e indispensabile, è il tentativo di C&P di dare risposte all’interrogativo sul perché di una certa insoddisfazione, una sorta di amaro in bocca, che talvolta si prova uscendone. Ci si chiede: cos’è che poteva andar meglio? Cosa non ha funzionato? Nei mesi scorsi, abbiamo cercato di capirlo con il nostro Alessandro, che ha visitato i Pronto Soccorso degli ospedali di Camposampiero, S.Antonio di Padova, Cittadella e Monselice provando a trarne qualche conclusione.
Nelle veloci osservazioni l’attenzione si è rivolta non tanto ai comportamenti degli individui coinvolti, fossero utenti od operatori sanitari, quanto agli aspetti della struttura fisica del Pronto Soccorso: pareti, porte, oggetti, strumenti, immagini e scritte, suoni e rumori. Gli oggetti fisici, infatti, svolgono sulle situazioni una vera e propria azione che è, in certa misura, progettata e programmata, con particolare attenzione per quei luoghi in cui ci si aspetta che chi li attraversa non necessiti di chiedere aiuto ad altri utenti per compiere determinate azioni .
È il caso, ad esempio, delle metropolitane, dei grandi centri commerciali, di alcuni uffici pubblici e delle sale di attesa. Sono tutti luoghi dove le persone possono incontrarsi ma non necessariamente stabilire una relazione diretta con gli altri per raggiungere lo scopo che le ha condotte là: luoghi pensati affinché anche il singolo vi si possa orientare in autonomia.
Nella sala d’attesa di un Pronto Soccorso gli utenti potrebbero indifferentemente trovarsi soli oppure assieme a molti altri, senza che questo influenzi significativamente la loro condotta. É stato proprio sugli aspetti fisici e materiali che ci si è focalizzati durante le brevi visite alle sale d’attesa, partendo dal presupposto che siano essi a determinare, in buona parte, la qualità dell’accoglienza agli utenti, avviando quel lavoro del prendersi cura che l’insieme dell’organizzazione sanitaria è deputata a svolgere.
Prendiamo in considerazione l’accesso. Si nota la presenza costante di due entrate separate: una per chi arriva in auto ed una per chi giunge a piedi. La segnalazione dell’ingresso è sempre affidata a cartelli di varia grandezza, alcuni recanti la scritta “PRONTO SOCCORSO”, altri semplicemente una croce rossa.
Come utenti le nostre aspettative sono di indicazioni chiare, ben visibili e di facile interpretazione. I primi due requisiti sono soddisfatti in tutti e quattro i Pronto Soccorso mentre sul terzo non mancano le perplessità, soprattutto se si pensa ai possibili utenti di lingua straniera che vivono o viaggiano nel nostro Paese. Si consideri che ormai in moltissimi Paesi del mondo si adotta il termine “EMERGENCY” per indicare il luogo dove si prestano le prime cure urgenti.
Passando alle sale d’attesa, in tutte è evidente il tentativo, da parte dell’istituzione sanitaria, di organizzarle secondo i canoni comuni ai luoghi in cui le persone devono sostare prima che un qualsiasi sistema organizzato si occupi di loro. Questi canoni prevedono in genere che l’attesa avvenga in un luogo definito, stabilito dal sistema, comune, possibilmente confortevole. Per questi aspetti la sala d’attesa di un Pronto Soccorso non è dissimile dalle altre, ma a volte le modalità di accoglimento stabilite dall’istituzione non coincidono con le aspettative degli utenti o possono, perfino, confliggere con esse.
I sedili uniti a tre o quattro, presenti in tutte le sale d’attesa visitate, consentono la possibilità di sedersi ed al tempo stesso rendono difficoltoso modificare la disposizione degli stessi, per far posto magari ad una carrozzina o a un passeggino per bambini.
La collocazione del cosiddetto front-line, ossia del punto in cui avviene l’interazione fra l’utente ed il personale sanitario è risultata alquanto diversa nei vari Pronto Soccorso e, secondo il visitatore che prova a mettersi nei panni dell’utente, il desiderio di privacy non sempre è esaudito. A volte ciò accade a causa dell’inadeguatezza delle strutture, che costringono utenti e personale ad alzare il tono della voce , o lo amplificano. Altre volte per la necessità di effettuare il colloquio nei corridoi del Pronto Soccorso, come nel caso in cui il paziente sia arrivato in barella.
In alcune sale d’attesa è previsto un sistema di segnalazione del numero di persone che sono in attesa dopo essersi sottoposte al triage, in altre no: in questo caso l’attesa può risultare più disagevole se non addirittura snervante per l’utente, non potendo allontanarsi dalla sala nel timore di non rispondere alla chiamata per la visita.
Spesso alle pareti sono affissi anche dei televisori, presumibilmente per intrattenere le persone durante l’attesa. Quando sono spenti, come nella maggior parte delle occasioni, provocano all’osservatore una sensazione di trascuratezza e abbandono mentre, nel caso siano accesi, spesso le trasmissioni su cui sono sintonizzati rischiano di risultare inadeguate al contesto. Forse anche agli utenti effettivi potrebbe non far piacere dover ascoltare i futili pettegolezzi di un talk-show o le finte risate di una sit-com. Lo stesso vale per il sottofondo radiofonico o musicale, diffuso in sale d’attesa, che può magari rappresentare un ascolto piacevole per il personale, ma una sgradevole dissonanza con lo stato d’animo di alcuni utenti.
Un altro elemento imprescindibile per ogni ambiente in cui avvengano attese piuttosto lunghe è quello dei servizi igienici. Le differenze riscontrate per questo aspetto fra i Pronto Soccorso visitati sono notevoli, sia per quanto riguarda la numerosità che l’accessibilità. Soprattutto questa seconda caratteristica è auspicata ed apprezzata dagli utenti più fragili, come quelli con difficoltà motorie, ma in alcuni casi l’unica preoccupazione dell’organizzazione sanitaria è sembrata essere quella di tenere i bagni puliti.
Ovviamente la pulizia e l’igiene sono aspetti fondamentali, ma sorprende constatare una certa disattenzione per aspetti altrettanto importanti come funzionalità e accessibilità. È quasi come se fossero servizi igienici genericamente progettati per servire un luogo qualsiasi e non quello, particolarissimo, in cui i pazienti aspettano magari a lungo il proprio turno affinché venga gestita un’emergenza che, a volte, li rende non autonomi nella deambulazione, nell’apertura e chiusura della porta e nell’utilizzo delle altre attrezzature. Abbiamo prestato attenzione principalmente ad aspetti della struttura fisica delle sale d’attesa dei Pronto Soccorso, ma un’organizzazione è fatta anche di prassi e procedure. Alcune di esse hanno avuto occasione di emergere anche nelle ricognizioni lampo che sono alla base di quest’inchiesta e, prima fra tutte, c’è la procedura del triage. Essa è una fra le più rilevanti del Pronto Soccorso: l’infermiere che la esegue deve stabilire, attraverso l’osservazione ed alcune domande, la gravità della patologia dell’utente che ha di fronte. In base al codice che l’infermiere assegna alla patologia, l’utente sarà visitato immediatamente oppure potrà attendere anche per molte ore (per un approfondimento leggi qui).
La conclusione della procedura è segnalata o da un braccialetto di plastica recante un codice a barre al polso del paziente oppure da un referto cartaceo consegnato allo stesso.
Sulle pareti sono affissi avvisi o manifesti per informare gli utenti su come avviene il triage, anche se non sempre in posti che consentono una lettura agevole. Solo in un caso queste informazioni sono scritte anche in altre lingue, oltre all’italiano.
L’interpretazione di chi scrive è che durante il cosiddetto triage avvenga l’incontro tra due obiettivi: quello dell’organizzazione sanitaria di agire con efficacia ed efficienza e quella dell’utente di avere una risposta al bisogno che non è in grado di gestire da sé. Questi due obiettivi che, a prima vista, sembrerebbero coincidere, in realtà sono distinti; infatti, se da un lato l’organizzazione sanitaria deve operare anche secondo criteri di efficienza, ossia di congruità delle risorse impiegate, dall’altro lato l’utente è focalizzato soprattutto sull’efficacia dell’intervento. Inoltre, per semplificare gli interventi, l’organizzazione sanitaria tende a considerare l’utente soltanto, o prevalentemente, per la dimensione biologica, differenziandolo per il tipo di patologia e la sua gravità, ignorando o comunque sottostimando le altre dimensioni caratteristiche dell’essere umano, cioè psicologica, sociale e culturale. Soprattutto quest’ultima ha grande rilievo nell’interpretazione dei sintomi del malessere e nella conseguente comunicazione all’operatore sanitario, come emerso in un paio di interazioni osservate. In una di queste è stato necessario che al dialogo fra l’utente e l’infermiere si aggiungesse una terza persona, coniuge dell’utente, nelle vesti di mediatore culturale.
Nell’altra, l’intervento di mediazione è stato compiuto da un membro stesso dell’organizzazione sanitaria, giunto in soccorso di un collega in difficoltà nell’interpretare il racconto dell’utente.
Anche i protagonisti del triage hanno esigenze diverse: l’infermiere deve mostrare calma e professionalità, non deve farsi influenzare, condizionare o persuadere dalle richieste degli utenti, deve essere rassicurante anche, se non soprattutto, attraverso il proprio atteggiamento. L’utente, da parte sua, è in una condizione di incertezza, probabilmente di rischio e, non avendo le conoscenze per affrontarla, si rivolge alla struttura sanitaria con una fiducia che da una parte è “obbligata” e dall’altra è temperata da una certa diffidenza. E questa diffidenza è spesso legata anche alla propria cultura.
L’impressione è che l’organizzazione sanitaria attrezzi il Pronto Soccorso con una serie di dispositivi, alcuni di tipo fisico come lo sportello, il pulsante di chiamata o il braccialetto di plastica, altri di tipo procedurale come il triage, che riproducono al suo interno l’asimmetria nel rapporto fra medico e paziente, quotidianamente riscontrabile. Nei dispositivi fisici sopra citati all’utente viene “pre-scritto” di compiere o di accettare determinate azioni per poter essere accolto dall’organizzazione sanitaria. Analogamente, nel dispositivo procedurale del triage non è prevista la possibilità, se non in forma residuale, che l’utente ponga domande. L’operatore sanitario formula le domande previste, nell’ordine e sugli argomenti prestabiliti e valuta se accettare le risposte come significative o come semplice indicatore della capacità dell’utente di orientamento nello spazio-tempo. Questa procedura sembra modellata sul colloquio tradizionale tra medico e paziente in cui il primo esercita il controllo sulla comunicazione per perseguire gli obiettivi terapeutici nel modo più efficiente possibile, trascurando l’apporto conoscitivo da parte dell’utente. Come per i dispositivi fisici già menzionati, all’utente non è dato mettere in discussione la “pre-scrizione” del triage, pena l’esclusione dall’accesso all’assistenza sanitaria.
E allora forse è per questo che, a volte, uscendo da un Pronto Soccorso, si prova un senso di insoddisfazione. Potrebbe essere legato non tanto, o non principalmente, alla prestazione sanitaria in sé ma al fatto di esserne stati “oggetto” piuttosto che soggetto attivo. In altre parole, la lettura della sofferenza avviene in modo unilaterale da parte di chi detiene il potere diagnostico e terapeutico. (Alessandro Addorisio)