Cronaca di una legge che ci difende dal dolore

recensione del libro omonimo di Marco Filippini e Manuela M. Campanelli

( il Sole 24 Ore, 2011, pagg. 152, scaricabile on-line

Fai clic per accedere a Cronaca_di_una_legge_che_ci_difende_dal_dolore.pdf

)

Quante volte, ci siamo chiesti perché una malattia dolorosa e incurabile, che toglie dignità alla persona non si possa ricorrere a cure palliative e terapia del dolore?
Il nostro Paese sta seguendo un percorso non privo di problematiche in questo ambito, ponendosi dei traguardi ben precisi. Tuttavia la strada da percorrere è ancora molto lunga, soprattutto se si tiene presente che ci sono vari tipi di dolore: fisico, psicologico e mentale.
Ho trovato molto interessante al riguardo questo libro che, in forma chiara e precisa, analizza le varie fasi che hanno caratterizzato l’iter della legge 38/10, trattando nodi e questioni di non facile risoluzione, facendo riferimento a ricerche scientifiche e presentando tabelle molto indicative.
La prima parte del libro affronta con varie sfumature la situazione prima dell’entrata in vigore della legge. Gli autori poi, nella seconda parte, entrano nel vivo della legge 38/10 descrivendo i vari contributi dati dai ministeri e dalle varie associazioni della società civile, compresa la Chiesa. La parte finale è dedicata ai risultati del dopo legge.
Ogni innovazione è sempre in relazione con un percorso di cambiamento del pensiero. Nell’immaginario collettivo l’uso di sostanze stupefacenti è legato ancor oggi alla criminalità. Tuttavia i pregiudizi più difficili da sfatare concernevano il dolore come passiva accettazione sia da parte del paziente, sia dei famigliari. La convinzione era che questi farmaci procuravano assuefazione da parte dell’organismo e la necessità di aumento della dose per ottenere gli stessi benefici.
Il riconoscimento dell’utilità degli oppiacei nell’azione di contrasto alla sofferenza è datata 1961 quando i trattati internazionali sul controllo dei narcotici hanno fatto sì che le politiche nazionali accogliessero gli analgesici oppiacei come necessari nella cura del dolore. L’appello rimase, però, inascoltato nella maggior parte dei casi, per l’esistenza, in molti paesi, di leggi finalizzate a impedirne l’utilizzo pratico.
In Italia, con la legge costituzionale dell’otto marzo 2001 “Modifiche al titolo V della seconda parte della Costituzione” varata dal Parlamento e poi approvata tramite referendum confermativo il sette ottobre dello stesso anno, sono stati stabiliti i principi regolatori atti a regolare le nuove competenze tra Stato e Regioni in materia di sanità. Tuttavia, dopo due anni dall’approvazione della legge erano pochi i traguardi raggiunti sul fronte della prescrizione degli oppiacei. Nessuna Regione aveva preso in carico le linee guida approvate. L’Italia contava pochi ospedali senza dolore; esisteva, di fatto, un solco profondo tra i dettami delle leggi e la realtà.
Con il Piano Sanitario Nazionale 2003-2005 lo scenario cambia sostanzialmente. Si passa dall’atto programmatico a un progetto di salute condiviso e attuato con le Regioni in modo sinergico e interattivo, in coerenza con gli obiettivi di salute dell’Unione Europea e delle altre organizzazioni internazionali. Inoltre, nell’ottobre del 2008 nasce l’European Pain Network: un gruppo di organizzazioni di pazienti di tutta Europa con l’obiettivo di “rappresentare e sostenere attivamente le persone colpite dal dolore, rilevare le loro necessità e battersi per migliorare la loro qualità di vita”.
Il nostro Paese rimaneva comunque il fanalino di coda nei confronti degli altri paesi Europei nell’uso degli oppiacei per la terapia del dolore, ma era capofila nell’uso di FANS. La cura del dolore cronico dipendeva ancora largamente dall’uso di questi ultimi. È pur vero che una legge non si può fare dall’oggi al domani, ma quella sulle cure palliative e la terapia del dolore, nella sua non ancora completa realizzazione, è frutto di un percorso in cui si sono susseguiti i contributi di ben sette Ministeri. Alcuni hanno varato veri e propri provvedimenti, altri hanno avuto il merito di porre le basi e altri non hanno preso decisioni, lasciando così delle lacune, superate dalle legislazioni successive. Insomma, a piccoli passi ci si è avviati verso un più corretto approccio terapeutico alla sofferenza.
Nel 2009 si è tenuto a Roma il convegno “Cura del dolore: un segno di civiltà”, evento al quale erano presenti tutti i protagonisti della battaglia contro la sofferenza. Nell’occasione tutte le parti convergevano su interventi che avrebbero trovato posto, un anno dopo, nella legge 38/10. La terapia del dolore si ritagliava un ruolo di primo piano, inserendosi tra gli obiettivi prioritari del Piano Sanitario Nazionale per il 2009. In intesa con le proposte si schierava anche la Chiesa Cattolica, che si trovava nella condizione di sfatare numerosi pregiudizi, primo tra tutti quello secondo cui la dottrina Cattolica induca a rassegnarsi alla sofferenza, mostrando come in realtà la Chiesa abbia più volte definito come fondamentale la prassi caritatevole dell’assistenza non solo spirituale ma anche clinica nei riguardi del dolore, nel rispetto della dignità della vita.
La legge 38/10 sulle cure palliative e la terapia del dolore rappresenta un’innovazione importante per la tutela della salute in Italia, perché sancisce il dovere etico e morale di cura al cittadino alleviandolo dal dolore, senza distinzione di età, tipo di malattia, luogo di vita, famiglia di appartenenza e condizione economica.
Punto di eccellenza di questa legge è la formazione degli operatori affinché siano all’altezza delle situazioni e affrontino in modo puntuale e professionale tutti i casi.
Le domande sorgono numerose, tuttavia a parer mio la prima questione che si pone è se una legge possa essere sufficiente per promuovere una svolta culturale. Una normativa ha il potere di cambiare consuetudini radicate nel nostro modo di agire e pensare? Certo, negli ultimi anni è cambiata la prospettiva di pensiero, l’idea che le cure possano anche migliorare la qualità della vita dell’ammalato è più accettata, così come lo è la concezione del farmaco come qualcosa che deve non solo curare, ma anche garantire la dignità del malato. Ciononostante, e anche se questa legge è sempre più supportata da dati confortanti, credo che ancora molte diffidenze siano attive nel passaggio dalla teoria alla pratica.
L’Art. quattro della Legge prevede che il Ministero della Salute promuova campagne istituzionali finalizzate all’informazione per una più efficace sensibilizzazione alle cure palliative e terapia del dolore. In realtà quest’approccio innovativo, che coinvolge la sofferenza sia del malato, sia dei famigliari, non è sufficientemente proposto dai mezzi d’informazione.
Per concludere, invitando i lettori a intervenire, prendo spunto da un articolo scritto da un docente dell’Università di Padova sul quotidiano il “Mattino di Padova” di mercoledì 12 marzo 2014, titolato: “Cannabis i Benefici per tutti”. L’articolista pone l’accento sulla liberalizzazione e sulla pena prevista per chi faccia uso di questi farmaci senza prescrizione medica, affrontando una più ampia e ancora controversa questione che il finale di articolo ben sintetizza. Qui, infatti, egli chiede: non è che l’uso della cannabis per scopi terapeutici sia un punto di partenza per l’apertura di un dibattito che non può essere più rinviato?
(Adolfo Zordan)

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