Raccogliere e riportare su questo blog racconti di piccoli momenti vissuti, così come le vostre riflessioni, più ancora che riuscire a presentarvi dei punti di vista su alcune tra le questioni più dibattute sui temi della malattia e della cura, della sanità e della medicina, è ciò che più ci rende convinti del fatto che C&P stia facendo un lavoro importante.
Ringraziamo perciò A.T. per il suo contributo il quale, con parole sobrie e fino in fondo sostenibili per chi legge, ci apre una piccola finestra sul mondo di una malattia terribile, la SLA, Sclerosi Laterale Amiotrofica.
Con lo sguardo esterno e libero di chi ha, per la prima volta, un incontro ravvicinato con una tale realtà, A.T. ci ricorda l’importanza di diffidare di quell’impressione, assurda e tuttavia diffusa, che sia la malattia in sé a negare storia e identità di chi ne è affetto e il senso della sua piena partecipazione al mondo sociale.
Entro in Casa Breda a Padova preoccupata di non riuscire a sopportare emotivamente la sofferenza dei tanti ospiti malati di SLA.
Con le colleghe del sindacato avevamo deciso di festeggiare così la festa della donna, portando in questo giorno la nostra vicinanza a persone impegnate in una battaglia difficile contro una terribile malattia.
Dopo le prime presentazioni e la consegna di un pensierino per tutti gli ospiti presenti, ci avviciniamo.
Il sorriso di Michela mi coinvolge e, cautamente, mi avvicino e le rivolgo la parola. Questa bionda signora di Castelfranco mi sorprende subito per la sua disponibilità al dialogo. Mi racconta di quando faceva l’assistente amministrativa per il Ministero della pubblica istruzione, di convivere da circa 6 anni con la malattia e di come era la sua vita prima di contrarre la SLA. Teneva particolarmente alla pulizia della sua casa di tre piani. Ride simpaticamente quando racconta delle volte che aspettava in pigiama, armata di mattarello, il marito che rincasava a tarda notte. E i suoi vivaci occhi verdi brillano nel parlare di Black, il suo pastore belga, che faceva la pipì “a spruzzo”. Michela si dimostra curiosa e attenta e mi chiede di ripeterle il mio nome. Mi dice di apprezzare molto la nostra iniziativa e di augurarsi che la Casa Breda possa continuare a funzionare. Trova l’ambiente confortevole e pensa che il personale, oltre ad essere professionalmente preparato, costituisca una “presenza molto importante” quando, ad esempio, centralinisti o portinai si fermano a chiacchierare e qualche volta anche a mangiare insieme agli ospiti.
Verso le 18, sorridendo, mi dice di essere stata tanto contenta di questa nostra visita e che sperava venisse ripetuta ancora ma, visto l’avvicinarsi dell’orario della cena, andava in camera a prepararsi. Guardo e ammiro, mentre si allontana sulla carrozzina, questa bella signora che, nonostante la sua sofferenza, non ha dimenticato il sorriso.
Subito dopo incontro Silvana che prima dell’inizio della malattia faceva l’assistente sociale. E’ ansiosa di partecipare a questo incontro e di scambiare qualche parola ma per lei è diventato più difficile parlare poichè la malattia è evidentemente in stato più avanzato; i suoi occhi, infatti, tradiscono tristezza e, forse, rassegnazione. Racconta di essere nata nel Delta del Po e si intristisce a raccontarmi della sua amica del cuore, Roberta, che non vede più dall’esordio di questa malattia che ha sconvolto la sua vita. Mi racconta un po’ di sè e mi dice che preferisce l‘ estate alle corte e grigie giornate invernali e che ama tanto i fiori, in particolare le orchidee. Mi racconta anche della sua passione per la lettura ma adesso questo piacere, purtroppo, le comporta tanta fatica.
Si guarda intorno Silvana e, osservando tutti i suoi abituali amici impegnati nelle conversazioni con le mie colleghe, mi ringrazia per la nostra visita e diventa silenziosa. Rabbrividisco al pensiero che possa sentirsi triste per le difficoltà indotte ormai dalla malattia nel dialogo con le persone e accarezzo la sua mano prima di salutarla.
Sono contenta di aver fatto questa esperienza perché, grazie a questi colloqui, il disagio e il senso di inadeguatezza da me provati prima nell’entrare in questa struttura hanno lasciato il posto alla comprensione e alla vicinanza per queste persone colpite da una malattia così invalidante. (A.T.)