Era la quarta volta che veniva a casa. Ed era la quarta volta che io mi sforzavo di trovare parole (alla fine escono fuori sempre robe inutili, ma soprattutto ridicole). Eppure per una persona che ha il cancro dovrei oramai averne abbondanti in dispensa, di parole giuste.
Era la quarta volta, dicevo, e benedetta, ma forse è meglio cominciare dalla prima. Fu quando ebbe la diagnosi. Mi disse che doveva operarsi di nuovo, che non avrebbe mai pensato che dopo otto anni il cancro si sarebbe rimanifestato nello stesso posto della prima volta. Mi disse che glielo avevano scoperto così, banalmente, con un controllo di routine, perché lei non sentiva proprio di averlo di nuovo in corpo: “Non ho alcun dolore, non mi fa male niente, sto bene” continuava a dire. Avrebbe dovuto subire la mastectomia e: “Mi dispiace, mi dispiace tanto, non mi ci voleva proprio a questa età, mi sarebbe piaciuto andar sotterra tutta intera, ma… pazienza”.
La seconda volta che venne fu quando seppe che non potevano operarla a causa di un inaspettato diabete, scoperto coi controlli pre-intervento. Anche lì: la sorpresa della scoperta, l’assenza di sintomi, il male che non dà dolore, il corpo che sembra non appartenere, poi la paura di non uscirne viva. E io che penso: la mia amica – lontana e cara come un amore perduto per uno stupido errore – sta morendo a cinquant’anni e tu qui a tediarmi con il tuo attaccamento oltremisura a questa vita insulsa e hai settantasei anni. Ma poi ripensavo a mia nonna, a quanto volesse esserci ancora, a oltre novantanni, e a come io riuscissi a sentirlo dal di dentro, il suo senso della vita. Allora la smettevo con le difese e provavo ad aderire alle esternazioni di questa vicina di casa, sebbene, al solito, non avessi buone parole.
Così è tornata a trovarmi anche poco prima dell’intervento, dopo una ben riuscita dieta antidiabete. Era la terza volta e mi voleva salutare. “Chissà che vada tutto bene” ripeteva, “chissà che vada tutto bene”. E su questa cosa del saluto, io, rifletto da tempo, sì, perché in passato mi sono lasciata morire dietro tanta gente senza tentare un commiato, a volte persino fingendo che no, non è vicina la tua morte, cosa dici mai e… che cavolo mi saluti a fare?
Con la vicina, poi, c’è stata la quarta volta, quella migliore. E’ stata quella delle esternazioni che raccolgono tutto il senso e mostrano pratiche tanto necessarie quanto non considerate, che tutto sono tranne che mediche, affidate come ad erbe benefiche che puoi raccogliere se hai il prato intorno. E se sai che esistono.
“Scusami se vengo a disturbarti, sai, ma è per fare due parole. Sto tutto il giorno sola, con mio marito che non mi dà soddisfazione se dico qualcosa, e allora il pensiero cammina, corre forte, va lontano, Tiziana, e tu lo sai dove va”. Ma sopra tutto c’è la questione delle medicazioni. Non avendo nessuno in famiglia che potesse fargliele, lo ha chiesto a Lisa, un’altra vicina, poco più giovane di lei, donna energica e generosa e che, soprattutto, ne ha viste di malattie in casa. “Ormai ci conosciamo da tanti anni, anche se non c’è mai stata tanta confidenza… Me lo fa volentieri il piacere, la Lisa. Le ho detto: guarda, non ho nessuno, e un’infermiera non mi va. Mi ha detto: ma ci mancherebbe altro! Me lo fa volentieri, davvero”. E questo è il punto.
Star male, pieni di paura e col cervello impacchettato in modelli che ci vogliono aggrappati alla vita e combattenti, armati non si capisce bene di cosa, proiettati in un improbabile obbligatorio e già ghetto: star così eppure riuscire a incontrare l’altro e in modo nuovo, cioè costruire relazione senza metterlo da parte, il dolore, ma anzi rendendolo parte.
Un po’ ottusa e sempre troppo chiusa, io, mi inchino alla mia vicina: 76 anni e neanche un capitolo di libro letto, 76 anni e tante categorie per me banalizzanti, 76 anni e racconti di una vita che sembra fatta di niente che valesse la pena. Però lei ce l’ha una buona formula in mano. Chissà a quanti la insegnerà. ( T.P.)
Bellissimo questo articolo, descrive perfettamente le sensazioni che prova chi è ammalato! cit.”Star male, pieni di paura e col cervello impacchettato in modelli che ci vogliono aggrappati alla vita e combattenti, armati non si capisce bene di cosa, proiettati in un improbabile obbligatorio e già ghetto: star così eppure riuscire a incontrare l’altro e in modo nuovo, cioè costruire relazione senza metterlo da parte, il dolore, ma anzi rendendolo parte”. Sarebbe fantastico e auspicabile che vi fosse l’incontro con l’altro ma scrivo con cognizione, anche ai più cari amici oramai non racconto più il mio dolore, le mie malattie…alle volte basta uno sguardo per capire di creare disagio, e quando ami le persone non si vuole dar loro altro fastidio, .. non stai parlando di soldi, amore, lavoro, crisi ecc, se parli di dolore fisico, si gioca con l’incapacità dell’altro che non sa come affrontare, acuendo lo stato di frustrazione per la sua stessa impotenza e non è ovviamente una colpa, è una constatazione! Senza sapere che alle volte, noi ammalati necessitiamo solo di “accettazione” non compatimento. Allora s’impara che nei giorni terribili, quando non ce la fai più, lasci passare il tempo!! Grazie T.P. è proprio bello, intenso, struggente quanto hai scritto.
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Grazie per la tua attenzione e la partecipazione, Merj. Credo di avvicinarmi, un minimo, a comprendere le difficoltà del vivere con la malattia come compagna, il dolore cronico, lo spettro della inguaribilità (incurabilità?). Però, anche, mi sento molto simile ai molti che fanno parte della tua vita e non sono in grado di accoglierti nella tua completezza, ahi. Tuttavia, pur senza assolvermi, comprendo un po’ anche questo. Il dolore, nostro o altrui, disturba la routine, nega i modelli collaudati, pretende adattamento. Richiede un enorme sforzo di intelligenza individuale e la mobilitazione di risorse simboliche eccezionali. La malattia fa la differenza, e il mondo a cui abbiamo immediato accesso è fatto di standard (e per fortuna). Ma c’è anche un’altro aspetto. C’è la solita vecchia questione della salute che manca intesa come anticipazione della morte e della perdita, dello strappo da chi in qualche modo compie la meraviglia di contribuire alla nostra esistenza.
Sai, mi sono recentemente scoperta a glissare anche sulle esternazioni di una persona cara – molto cara – sulla sua salute. Due cose dette al volo, generiche e implicite, dal senso ambiguo tra il non star bene generale e una qualche conclamata malattia. Mi ha fatto salire un’angoscia indicibile, così, all’istante. Però (e ovviamente, dirai tu) mica ho cercato di approfondire. Né lo riuscirò a fare presto, credo. Riguardati, fai attenzione a te ché è necessario, prenditi cura: questo so solo dire. Anzi, di più: quando ci sei, se ci sei, devi esser sano (o “far finta di esser sano”?) perché esserci necessita, in un certo senso, efficienza. Ma, credimi, a pulsarmi nella testa, folle, è l’equazione di cui sopra… Se non stai bene, allora è vero che potresti (cioè potremmo) non esserci mai più.
Il vero punto è che viviamo e amiamo nei modi che conosciamo, ci esplichiamo in forme disponibili, salvo poi imparare a fare di meglio, ognuno di noi con pazienza e l’aiuto di chi può darne. E, vedi, se stiamo qui a raccontarcela, dai nostri punti di vista così diversi, allora forse siamo già a buon punto. Grazie di cuore per l’aiuto, Merj. (Tiziana)
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