“Mia madre” (Nanni Moretti, 2015). Spunti per alcune considerazioni sulla fine della vita.

Si è già detto molto sull’ultimo lavoro di Nanni Moretti, Mia madre, nelle sale in questi giorni, e qui vorremmo provare a buttar giù soltanto alcune impressioni, a caldo. Non abbiamo certo intenzione di proporre riflessioni da critica cinematografica. Anche per eventuali sinossi suggeriamo di ricorrere ad altri spazi sul web: non ne mancano di ricche e attente. Noi possiamo cavarcela dicendo che la narrazione si sviluppa tra la quotidianità lavorativa forse un po’ ingombrante di Margherita, regista in crisi nelle relazioni con molti di quanti fanno parte a vario titolo della sua esistenza, e la sua partecipazione alla fine vita di Ada, la madre. L’accompagnamento è condiviso con Giovanni, il fratello, anch’egli in un momento di ripensamento di alcuni aspetti della propria esistenza. Tra routines interrotte e resistenze dell’ordinario, incertezza e insoddisfazioni, poi attraverso risibilità e isterismi, ma in una cornice che offre una pacatezza di fondo e a volte invita a sorridere, si snodano le cure a una madre oramai anziana ma attaccata alla vita e con grandi ricchezze ancora da condividere.

FIlm - N.Moretti, 2015

A colpire sono soprattutto alcuni aspetti della rappresentazione della cura. In primo luogo c’è la delega ai sanitari, da parte dei familiari, a prendere in carico la malattia e il corpo del proprio caro. Ci si riserva tuttavia alcuni spazi per sé, cioè per pratiche di cura basate su presenza, vicinanza, chiacchierate, carezze, ma anche su cose come la preparazione di un pasto qualche volta, i cambi di biancheria, le lavatrici. Questo voler esserci richiede l’eccezionale mobilitazione di molte risorse personali:  le difficoltà d’integrare con le varie dimensioni esistenziali l’esigenza di vivere fino in fondo un momento così importante sono notevoli. Qui, Mia madre riesce a farci sentire molto coinvolti e quasi induce a puntare il dito contro la dimensione sociale per le difficoltà di gestire la complessa e dolorosa situazione – e nella dimensione sociale sta anche il linguaggio medico, complice d’una ritardata accettazione dello stato delle cose da parte, soprattutto, di Margherita. Comunque, la responsabilità viene di attribuirla in prima istanza all’insieme delle pratiche professionali di cura sulla paziente, la quale dapprima si sente “instupidire” da come tutti la trattano e quindi si ritrova ad aver delegato agli altri ogni controllo sul proprio corpo.

La chiave di un morire sereno sembra stare, invece, proprio nel recupero di una quotidianità domestica, ma anche di una responsabilità su se stessi, che non potrà esprimersi se non nella voglia di appropriarsi per qualche via (quella dell’auto-somministrazione del giusto farmaco al giusto momento, per esempio) di un saper fare quasi tecnico, il quale ben poco ha a che vedere con le conoscenze sul proprio corpo.

Quel bisogno di morire-con gli altri, che Ada aveva intensamente, per quanto implicitamente, espresso durante l’ospedalizzazione, sembra mutare in una sorta di poter finalmente morire-con sé, un sé rimesso in gioco e in grado, ora, di svolgere quell’ultimo compito.

C’è delicatezza in questo film sulla fine vita, come qualcuno ha detto. Viene da chiedersi, tuttavia, se sia proprio vero, come qualcun altro sostiene, che esso permetta di recuperare direttamente le emozioni più personali di chi si porta dietro un vissuto molto vicino a quello di Margherita e Giovanni. Non è che invece il ricordo dello strazio personalmente vissuto, magari legato a emozioni tanto diverse da questa pacatezza, porti a dire “la mia è tutta un’altra storia”? Non è che forse l’intento degli autori era sottolineare il sentimento di solitudine che di fronte a certe cose avvertiamo come implacabile?

Beh, il fatto che questa possibilità sia quantomeno sospettabile ci piace molto. Quello che invece lascia un po’ perplessi, in Mia madre, è l’idea che la sua caratterizzante pacatezza possa indurre a dire cose come: “è così che va”, ovvero ad accettare conservativamente un certo modo di gestire le relazioni attorno al morire, senza molto problematizzare. Il  riferimento è soprattutto alla debolissima tematizzazione di quello che negli studi sulla morte e il morire è chiamato “contesto di consapevolezza”. Così Margherita e Giovanni, pur chiedendosi a un certo punto, nel confronto con il medico che seguiva il caso, cosa fosse giusto fare, se dire o non dire ad Ada che stava morendo, arrivano velocemente alla negazione della possibilità di esser sinceri. Attuano cioè quella “fabbricazione paternalistica”, così diffusa nel nostro sistema culturale fino a non molti anni fa, che vuole sanitari e familiari cooperare per imporre una falsa definizione della situazione al morente, spesso con una conseguente evoluzione verso la menzogna reciproca.

Una sola visione non è bastata a chiarire quanto la retorica narrativa del film inviti a uno sguardo critico nei confronti della scelta di macchinazione – che comunque non sembra essere un elemento centrale nella narrazione. Tuttavia, quanto viene alla fine rappresentato è una sorta di pacificazione seguita alla deospedalizzazione di Ada, oramai aggravatasi, in cui il realizzarsi del morire accade giorno per giorno a casa, dentro un vivere per niente facile, comunque assistito, quasi residuale, eppure in continuità col tempo andato della vita ordinaria. E’ una pacificazione nella quale manca il dirselo, il parlarsi di cosa sta succedendo. E il dubbio che qui non ci sia una richiesta di approvazione rivolta allo spettatore è forte.

dal film

dal film “Mia madre” (N.Moretti, 2015)

A mitigare la sensazione che questo dubbio lascia, ci soccorre il quasi refrain metacomunicativo che attraversa film: è l’invito agli attori – quelli impegnati nel film inscenato, diretto da Margherita – a stare sempre accanto al personaggio interpretato. Leggibile su almeno un paio di differenti livelli, a noi di C&P seduce la generalizzabilità alla cosiddetta metafora teatrale, la quale ci vuole tutti in un continuo lavoro di interpretazione di diversi ruoli, quelli sociali. L’impegno a mobilitarsi per qualcosa d’altro, oltre che per l’agire richiesto dal ruolo, può essere il modo per tenere insieme le proprie diverse interpretazioni, ma anche per rivendicare una partecipazione rispetto al copione assegnato.

Nel complesso dunque, questo film va visto cercando di accogliere tutte le domande che suggerisce da sotto la superficie. In particolare, ci si augura che l’evidente importanza della preservazione, nel vissuto di malattia, di alcune routines della quotidianità non induca a risolvere sbrigativamente la questione dell’inganno. Esso infatti, come mezzo secolo di studi ha fatto emergere, priva il morente della possibilità di esprimersi apertamente, gli aggiunge l’onere di proteggere i suoi cari e non fa che anticiparla, la morte: nella relazione con l’altro. (C&P)

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2 commenti

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2 risposte a ““Mia madre” (Nanni Moretti, 2015). Spunti per alcune considerazioni sulla fine della vita.

  1. care&people

    …l’inganno inscenato è il punto; il fatto che spesso si dica “non è vero, non stai morendo” equivale a dire “non parliamo di come ti fa sentire il fatto che stai morendo”.

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  2. Chi sta morendo lo sa, non puoi ingannarlo. Mia madre 2 anni fa in ospedale mi disse”Tony sto morendo” io no ci credetti ed andai a casa ma poche ore dopo se ne andò per sempre.

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