(segue) Il farmaco negato

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Apparentemente non ci sarebbe molto da chiarire in questa vicenda: un medico non prescrive un farmaco ad una sua paziente perché le “linee guida” per quella malattia non lo consentono.
La scienza medica si esprime sempre più attraverso linee guida, protocolli terapeutici, indicazioni e procedure che, se da un lato rendono le pratiche di cura più omogenee e confrontabili in modo da poter essere gestite servendosi di strumenti statistici e informatici, dall’altro rendono più rigido e codificato il rapporto con paziente che è, necessariamente, variabile e soggettivo.
Il medico di famiglia è chiamato a conciliare queste due esigenze all’interno di un rapporto, quello con il paziente, che è fortemente individuale mentre il conflitto fra la necessità di controllare l’uso delle risorse pubbliche da una parte e le aspettative di cura del paziente dall’altra, nasce in ambito sociale e collettivo. Paradossalmente, ma non tanto, è la stessa scienza medica che mette a disposizione del paziente nuove tecnologie e terapie innovative che ricercatori, medici ed altre figure professionali provvedono a promuovere presso i possibili fruitori ma poi lo stesso sistema sanitario ne vorrebbe limitare l’utilizzo. Si dirà che ciò è pienamente legittimo e razionale in quanto le nuove tecnologie, farmaci compresi, sono destinate a patologie specifiche e ben individuate ma questa risposta non tiene conto delle aspettative, altrettanto legittime, che sorgono nel cittadino quando si ammala. Inoltre queste aspettative spesso sono indotte e ampliate da apposite campagne informative: basti pensare a quanto si è insistito, negli ultimi vent’anni, sul controllo del colesterolo nel sangue, fino a farlo diventare uno dei principali segnali di allerta per la salute. Ora che questo messaggio è entrato a far parte del vivere quotidiano è complicato, sia per il cittadino che per il medico di famiglia, ricondurre la sua portata a casi specifici e codificati. Con ciò non si vuole affermare che le campagne di informazione o di prevenzione non siano necessarie o importanti ma che, quando sono in gioco percezioni, atteggiamenti o comportamenti, occorre tenere presente qual è il patrimonio collettivo di informazione, conoscenza, esperienza e prassi quotidiana dal quale, inevitabilmente, attinge l’individuo, in questo caso il paziente.
Nel caso riportato dall’articolo, inoltre, sembra esserci un elemento comune ai due protagonisti: la paura. Da parte della signora Daniela, paura per la propria salute, minacciata da un nemico invisibile, il colesterolo, e perciò ancora più temibile;  paura per il biasimo che il sistema sanitario potrebbe manifestare per il proprio operato, giudicato non “appropriato”, da parte della dottoressa. Queste due paure, sommate, vanno ad indebolire se non a compromettere il pilastro fondamentale della relazione fra paziente e curante: la fiducia reciproca. Per la paziente, la fiducia che il proprio medico faccia tutto il possibile, nell’utilizzo della scienza medica, per curare o prevenire la malattia; per il medico, la fiducia che la paziente non metta in dubbio le sue capacità professionali e di legittimo rappresentante del sistema sanitario.
Fin quando le scelte di politica sanitaria, come la ricerca dell’ “appropriatezza” delle prescrizioni mediche, non terranno conto del contesto “culturale” nel quale vanno a inserirsi il rischio che inneschino conflitti anche acuti nella relazione fra il medico ed il paziente resterà elevato.  (a.a.)

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