Benessere è il mio maso
In Trentino, il maso è una stalla con fienile. Al piano terra la stalla con i muri di pietra, sopra il fienile tutto di legno.
In montagna, con mio figlio quattordicenne. Dal paese volevamo raggiungere il bosco. Il primo tratto della strada poderale era lungo, pieno di ampie curve, un po’ noioso. Gli proposi di prendere una scorciatoia, ripida, sì, ma veloce che io credevo di ricordare bene. Vero all’inizio. Riconobbi il sentiero e il rio che lo costeggiava e poi? … Mah!
L’erba era alta, molto alta e ben presto le tracce scomparvero. Davanti a noi un “muro” di prato sempre più ripido. Ricordavo solo la direzione. “Mamma, sei sicura che sia di qua?” mi chiese Lorenzo perplesso. Ci spostammo un po’ a sinistra dove la pendenza si faceva appena più lieve. Se esistesse l’arrampicata su prato, quella sarebbe stata la nostra situazione. Salivamo in verticale a quattro zampe, aggrappandoci ai ciuffi d’erba, cercavamo gradini naturali inesistenti e scivolavamo in continuazione verso il basso. Quando il pensiero “Chissà dove finiremo” prese a balenarmi, inaspettato, davanti a noi, comparve dal nulla la punta di un piccolo tetto di vecchie tegole, poco a poco una facciata di legno scuro e, a pendenza finita, i muri di pietra.
Con un’improbabile porta dipinta a strisce verticali bianche e azzurre.
Era un masetto in evidente stato di abbandono, imprigionato in un bosco di robinie alte, dal tronco spinoso. L’erba ci arrivava al petto, il silenzio ci avvolgeva. Accaldati ci sedemmo sulla panca di legno davanti al maso, all’ombra di un frassino. Tirammo il fiato e ci godemmo il panorama. Dominavamo il paese, consapevoli che non un’anima ci potesse vedere. Pareva che nessuno fosse mai stato lì e che nessuno ne conoscesse l’esistenza. Non eravamo in mezzo ad un classico bosco di abeti e larici, ma i sette nani, quando sarebbero arrivati, ci avrebbero sorpresi lì a godere della loro dimora. “Lorenzo” dissi, “non sappiamo come ci siamo arrivati e non lo troveremo mai più”. Tutt’intorno non un sentiero segnato.
Alcuni anni dopo, mio marito, nativo del luogo, e io prendemmo in considerazione l’acquisto di un maso.
Percorremmo boschi e sentieri, vedemmo ruderi e rovine da ricostruire. Troppo isolato, troppo all’ombra, troppo vicino alla strada, troppo caro, troppo grande, troppo lontano.“Vieni” mi disse Paolo un giorno, “ti faccio vedere quello che acquisteremo”. Seguimmo la strada stretta che dal paese saliva e s’inoltrava nel bosco, ad una curva l’abbandonammo. Sulla montagna, in pendio, non riuscivo a stare in piedi, neanche di taglio. Dovevo scansare i rovi, sostenermi ai tronchi ed evitare di scivolare sugli aghi di abete. Le caviglie ormai “ingessate” nella posizione “a scaletta”, davano segni di cedimento. Giungemmo ad un sentiero largo. Da una parte saliva quasi a perpendicolo, dall’altra scendeva e le acque di un rio se n’erano appropriate. Cercammo di non bagnarci del tutto. E al di là di fitte fronde arbustive e arboree, eccolo. Un masetto stretto e alto. Lo raggiungemmo di fianco. Il tetto di vecchie tegole, le solite pareti di legno sopra e di pietre sotto.
Ma aveva anche un’improbabile porta a strisce verticali bianche e azzurre.
“È in vendita” mi comunicò. Era senza strada, stretto in un bosco di alberi spinosi, un pendio rischiava di farci rotolare giù non appena fossimo usciti dalla porta, l’umidità, all’interno, faceva pensare a quelle grotte di acque miracolose, con il mestolino accanto per chi le volesse assaggiare. Ma sarebbe stato nostro. Avremmo abbattuto alberi, falciato, ricostruito, mitigato i pendii, creato una strada. Quello era il luogo in cui mi sarei goduta tranquillità, silenzio, profumi, animali, orticelli e sole.
Alle spalle il bosco, di fronte le montagne.