Attenti al lupus

Con la testimonianza di Lorenzo si conclude la webserie “Segui la vita” pubblicata da Cittadinanzattiva. Lorenzo, poco più che trentenne, romano, è ammalato di “lupus eritematoso discoide”, una malattia della pelle, scoperto da cinque anni mentre in realtà, spiega, ne è affetto da circa sette. Il ritardo è stato dovuto all’incapacità di diversi medici nel riconoscere la patologia (minuto 1.54). Le conseguenze fisiche di questa malattia sono rappresentate da macchie cutanee nelle zone del viso e in quelle esposte al sole e, se non curate, possono diventare permanenti. Oltre ad assumere farmaci in cicli di quattro o cinque mesi, Lorenzo deve evitare di esporsi al sole e comunque, nel caso debba farlo, non lo fa scoperto ed usa delle creme protettive. Egli racconta che, inizialmente, ebbe delle difficoltà a seguire le cure in modo accurato a causa di alcuni effetti collaterali ed anche semplicemente per la difficoltà di ricordare di assumere i farmaci.

Lorenzo e il lupus

Lorenzo prosegue riconoscendo che le strutture sanitarie pubbliche cui si è rivolto gli hanno fornito il dovuto supporto che gli consente di non avere sul viso le tipiche macchie dovute alla malattia, il che sicuramente sarebbe per lui fonte di imbarazzo.  Infine, come i precedenti protagonisti della webserie, conclude con alcuni consigli come essere curiosi e avere fiducia nei medici. Soprattutto il primo dei consigli ci fa pensare che nel suo caso la curiosità sia servita a non accontentarsi dei primi responsi medici e a continuare nella ricerca di una corretta diagnosi.

Giunti al termine di questa serie di testimonianze di malati cronici proviamo a fare qualche considerazione, naturalmente non sulle patologie e sul modo più appropriato di affrontarle ma su come viene rappresentata la malattia cronica in un media quale You Tube da parte di una associazione, come Cittadinanzattiva, che promuove e tutela la salute dei cittadini.

A parte l’introduzione comune a tutti i video della webserie in cui si ricordano le difficoltà incontrate dalle persone affette da malattie croniche e si ribadisce l’importanza della voglia di vivere e di lottare nonché della forza di volontà per intraprendere il percorso di cure, un elemento che abbiamo trovato costantemente nei racconti dei protagonisti è quello delle implicazioni psicologiche che la malattia comporta. Dalla sindrome di Turner di Sara alla spina bifida di Maria Pia, dalla spondilite anchilosante di Silvia all’HIV di Giusy, ogni patologia determinerebbe un disagio psicologico che va affrontato e superato per raggiungere l’obiettivo di aderire in modo completo alla cura. Ciò che colpisce, però, è che nelle argomentazioni portate dalle pazienti per raccontare tale disagio sembrano emergere aspetti di carattere più sociale che psicologico. L’ esclusione sociale di Sara durante un certo periodo scolastico, le difficoltà relazionali con i coetanei di Maria Pia,  il “vuoto” sociale creatosi intorno a Giusy quando si viene a conoscenza della sua patologia e infine le difficoltà di comunicazione sul luogo di lavoro e in famiglia di Silvia sono tutte situazioni che, pur avendo ovviamente un risvolto psicologico, hanno origine nel rapporto con gli “altri”. Invece la strategia comunicativa adottata da Cittadinanzattiva ci sembra puntare su un’ individualizzazione del problema che il malato deve risolvere da sé, trovando in se stesso quella forza d’animo e quella volontà che servono a superarlo. Certo, si parla anche di supporto psicologico da parte di specialisti o esperti ma, appunto, la loro funzione può essere solo di aiuto e supporto mentre chi deve operare il cambiamento rimane sempre l’individuo malato.

Questo approccio rischia così di trascurare la responsabilità sociale di tutti coloro che, a vario titolo, sono in contatto con l’ammalato cronico come parenti, amici, colleghi, vicini di casa, conoscenti e concittadini. La giovane Sara si sarebbe sentita “piccola” se non ci fossero stati i compagni di classe a ricordarglielo? Giusy avrebbe avuto la necessità di un supporto psicologico se le sue cerchie sociali, a cominciare da quelle più intime, non l’avessero trattata con la diffidenza che noi tutti riserviamo a chi è affetto da HIV? E Silvia avrebbe dovuto fare un “lavoro psicologico” su stessa se le persone con cui si è relazionata, dopo la scoperta della malattia, avessero da subito, come farà in seguito il figlio, compreso le sue difficoltà? Infine anche Lorenzo, che non parla di risvolti psicologici nel suo racconto, avrebbe avuto lo stesso timore per la sua malattia se la possibilità di manifestazioni cutanee visibili a tutti non fosse stata per lui un pericolo da scongiurare?

A ben vedere quindi, il supporto psicologico di cui sicuramente hanno bisogno queste persone non è dovuto ad una loro debolezza o mancanza che dev’essere colmata, ma molto spesso al modo in cui è costruita la società in cui viviamo, che discrimina e marginalizza chi non è adeguato allo “standard” accettato, che sia esso culturale, produttivo o estetico. Ben vengano perciò le campagne di sensibilizzazione sulle malattie, croniche e non, per aiutare tutti a comprenderle meglio e, nel caso, aderire alle terapie nel modo più consapevole possibile, a patto che tali campagne non puntino esclusivamente sull’esortazione a trovare “ dentro di sé” la forza, il coraggio o qualsiasi altra dote personale per affrontare la malattia.  (A.A.)

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