Ma la scuola non dovrebbe aiutare?

Tramite la stampa locale abbiamo conosciuto la protagonista della storia che vi proponiamo. Contattata, ha acconsentito a raccontarsi a C&P.


Si chiama Giulia Volpato, ventunenne studentessa di Scienze Politiche a Padova, affetta da E.E.C., una patologia rara che troverete descritta nel sito www.sindrome-eec.it dell’associazione di cui Giulia è Responsabile Ufficio Stampa.
Alla richiesta di raccontare ai visitatori di C&P un aspetto che ritenesse significativo per la sua vita, al di là della malattia, Giulia ha scelto di parlarci dei rapporti con i compagni di studi, dalle elementari fino all’università. Ha narrato così l’avvicendarsi di diverse sensibilità, atteggiamenti e comportamenti in quella che è stato a lungo la sua più importante interfaccia col mondo – la scuola – e che hanno contribuito a definire la sua malattia, a stabilirne la forza  e il peso.
Leggendo questo post forse qualcuno penserà che la storia non sia in linea con i temi trattati da C&P, ma noi riteniamo che la malattia, la cura, l’assistenza siano profondamente influenzati non solo dalle strutture, dalle professionalità e dalle tecnologie sanitarie disponibili, ma anche dall’ambiente socio-culturale circostante di cui la scuola è una componente fondamentale.
Il racconto di Giulia è iniziato da una distinzione: il mondo delle scuole inferiori da una parte e quello delle superiori dall’altra, praticamente agli antipodi.
Giulia ha frequentato le scuole elementari di S. Domenico, frazione di Selvazzano D., in provincia di Padova – e in quel periodo si sono manifestati i primi problemi alla vista. Poi è passata alle scuole medie di Tencarola, dove ha conosciuto  nuovi compagni di scuola che, ci dice, appartenevano a quella categoria di persone che nella vita non aiutano mai nessuno. Mentre alle elementari ricorda con piacere le insegnanti per il loro impegno, col passaggio alle medie avviene quello che lei definisce un “disastro”. Ripensando a quel tempo, si descrive come una ragazzina “chiusa, introversa e impaurita da tutto e tutti” che non ebbe alcuna comprensione dalle persone che facevano parte del suo universo scolastico. Si rivede relegata in un banco vicino alla cattedra, dove nessuno dei compagni osava sedersi. In un’occasione, avendo la scuola provveduto a sostituire le luci al neon che provocavano ulteriore difficoltà alla sua vista, ci furono proteste furibonde, perché  venivano spesi dei fondi per questa ragazzina e non per altre attività.
Con amarezza Giulia ricorda come, le rare volte in cui veniva invitata alle consuete festicciole fra compagni di classe, venisse regolarmente lasciata sola. Per sua fortuna c’era Ines con pochi altri studenti della scuola a tenerle compagnia al di fuori della sua classe. Neanche fra i membri del corpo docente Giulia trovò comprensione e incoraggiamento, anzi una professoressa le pronosticò un futuro piuttosto modesto a causa di un’intelligenza limitata. Ha poi ancora bene in mente la scena di una lettrice che il giorno dell’esame di terza media giunse a dirle che secondo lei era stato un disastro – e dire che le era stata assegnata come “supporto”.
Già da questi primi riferimenti è apparso evidente come possa rivelarsi deleterio un approccio sbagliato non alla “disabilità” ma alla “diversità”. Giulia fa tutto o quasi quello che fanno i suoi coetanei, non è una disabile, perlomeno non più di quanto lo sia un bambino miope o gracile o basso di statura che debba leggere da lontano, sostenere un grosso peso o scavalcare un muro.
Ciò che tiene lontani da lei i compagni di scuola è probabilmente il suo apparire diversa, con le mani e i piedi che hanno una conformazione insolita, così come può essere insolito, ma ormai sempre meno, vedere un bambino con la pelle, gli occhi o i capelli di colore diversi da quelli cui siamo abituati. E’ la mancanza di educazione all’accettazione di ciò che è, apparentemente, diverso da sé che produce nei bambini l’atteggiamento di rifiuto, di timore o, peggio, di scherno. E’ responsabilità della famiglia e della scuola formare i nuovi membri della società secondo criteri che favoriscano il loro inserimento e la loro integrazione, per questo colpisce sentire raccontare che proprio i professori che avrebbero dovuto facilitare questo processo, siano stati indifferenti, se non complici, all’isolamento di Giulia da parte dei compagni.
Nella scuola superiore, un liceo delle scienze umane, la nostra narratrice trova invece disponibilità, comprensione e collaborazione. All’inizio, quando le viene offerta la possibilità di un insegnante di “sostegno”, lei rifiuta perché teme così di essere “etichettata”, ma poi si ricrede e ammette che è stato un grande aiuto, grazie alle capacità straordinarie dell’insegnante. A differenza della scuola media, già dal primo giorno, una professoressa le dà la possibilità di presentarsi ai compagni in modo semplice ed aperto, per informarli delle sue necessità, dei suoi limiti ma anche delle sue aspirazioni, dei suoi progetti, delle sue passioni, come tutte le ragazze di quell’età.
Giulia racconta, con un pizzico di giustificata ironia, di come all’improvviso scomparvero tutte le sue presunte difficoltà di apprendimento e che i suoi voti scolastici schizzarono in alto, ponendola fra i primi della classe. I suoi compagni di classe facevano a gara nell’aiutarla nel prendere appunti, usando pennarelli colorati su fogli neri per non affaticarle troppo la vista, i professori adeguavano le verifiche di studio alle sue necessità con quel pizzico di flessibilità sconosciuta ai loro colleghi delle medie.
A mio parere, proprio perché i compagni del liceo superano l’ostacolo dell’apparente diversità di Giulia è possibile da parte loro darle una mano negli impegni scolastici, né più né meno di quanto facciano, passandosi appunti copiando compiti e bisbigliando suggerimenti, gli studenti di ogni scuola.
Tuttavia non sarà sempre tutto rose e fiori per Giulia in quel liceo. Al secondo anno, infatti, le viene assegnata un’altra insegnante di sostegno. I suoi metodi sono rigidi ed autoritari, tali da far protestare gli stessi altri docenti. Per sua fortuna l’anno successivo il nuovo insegnante di sostegno, Domenico, è di tutt’altro genere.
Così la vita scolastica ritorna piacevole anche grazie alla presenza di Ovidio, un compagno di classe generoso e sensibile, “un uomo da sposare”, come lo definisce Giulia. Il clima è così piacevole che, come lei dice, riesce a farla “essere” normale e non farla “sentire” normale.
Giulia attribuisce la differenza di atteggiamento fra i professori delle medie e quelli delle superiori ad una diversa mentalità, dovuta al diverso contesto urbano: i primi vivono e insegnano in un piccolo paese alle porte di Padova mentre i secondi operano nel contesto cittadino. Questa differenza si sarebbe poi palesata con un rifiuto dell’ascolto, della differenza, dell’ignoto da parte dei professori delle scuole medie mentre i professori delle superiori avrebbero dato prova di apertura, di voglia di comprendere, di capacità di ascolto.
E’ difficile individuare le cause dei differenti comportamenti umani: certo un contesto urbano potrebbe favorire una maggiore apertura e comprensione verso la diversità rispetto ad uno più rurale ma al giorno d’oggi le differenze territoriali e culturali sono davvero minime per giustificare  atteggiamenti così opposti.
Infine Giulia è passata a raccontare la sua attuale esperienza all’Università di Padova, iniziando dalle grosse difficoltà avute paradossalmente proprio con l’Ufficio Disabilità dove le hanno consigliato di scegliere una facoltà “semplice” e le hanno di fatto impedito di partecipare al “test” per la facoltà di Medicina, nonostante Giulia avesse chiarito che, pur consapevole di non poter mai esercitare la professione medica, voleva semplicemente “mettersi alla prova”. Il sogno di Giulia è di potersi dedicare ai bambini e se avesse potuto diventare medico, ci confida, avrebbe fatto la pediatra.
L’esordio nel corso di laurea attuale avviene con un trenta nell’esame di Diritto, tanto per smentire le tante Cassandre che Giulia ha incontrato nella sua vita. Poi si succedono situazioni alterne: dal  professore di Filosofia delle Dottrine politiche molto disponibile e gentile a quello di Storia Contemporanea che invece si ostinava pervicacemente a negarle di fare l’esame al PC o, in alternativa, in forma orale perché il suo metodo di verifica “standard” prevede un compito scritto che per Giulia rappresenta un’ulteriore difficoltà, dati i suoi problemi di vista. Il consiglio dell’Ufficio Disabilità in questo caso è stato quello di “evidenziare” con il docente la sua disabilità mentre Giulia non ha alcuna voglia di andare in giro indossando un cartello con su scritto, per usare le sue parole:  “Sono orba”. In fondo per agevolare il suo studio non occorre molto: basta fornirle i testi in formato PDF o Word in maniera tale che, con un software apposito che ha sul PC, Giulia possa riuscire a leggerli oppure ad ascoltarli.
Anche con i compagni di corso le cose non vanno spesso per il verso giusto perché, nonostante Giulia detesti essere dipendente dagli altri, ci sono situazioni in cui è costretta a chiederne l’aiuto come quando non riesce a leggere bene cosa viene scritto sulla lavagna. Talora però avverte l’insofferenza degli altri studenti. E così non ci ha pensato due volte a lasciar perdere la frequenza delle lezioni, anche se ciò comporta un considerevole allungamento dei suoi tempi di studio. Per un momento ha preso anche in considerazione l’ipotesi di abbandonare gli studi universitari ma poi ha cambiato idea perché, come dice, “non voglio farmi mettere i limiti dagli altri”.  Continuerà nel suo impegno di studio, con la stessa determinazione che mette nella vita di tutti i giorni. (A. A.)

Lascia un commento

Archiviato in storie, territori, testimonianze

Lascia un commento