Con la tappa di Monselice, si conclude il viaggio di Alessandro tra i Pronto Soccorso padovani. Si è trattato di un giro di osservazioni estemporanee all’interno di questi particolari reparti di alcune importanti strutture ospedaliere come quelle di Camposampiero, Padova e Cittadella. Il prossimo appuntamento sarà dedicato a evidenziare gli aspetti rilevanti emersi da questa comparazione. Nel frattempo rinnoviamo l’invito ai lettori a mandarci storie e considerazioni che possano aiutare tutti gli interessati al tema a trovare elementi e spunti di riflessione.
Giungendo davanti l’ingresso principale dell’ospedale di Monselice, numerose sono le indicazioni per il Pronto Soccorso, il cui ingresso si trova alla fine di una rampa che serve sia per le autoambulanze che per i pedoni. Entro in un’ampia sala d’attesa, sulla quale si aprono numerose porte. La più grande, tutta in vetro, è quella che collega con la rampa automobilistica esterna ed è automatica. Quelle interne conducono rispettivamente ad una zona denominata “osservazione breve intensiva”, all’area rossa e ad un corridoio con gli ambulatori dal quale si possono raggiungere i reparti e gli altri locali dell’ospedale.
Quasi frontalmente rispetto all’ingresso, indicato da un cartello sospeso, c’è lo sportello per l’accettazione. E’ costituito da un’ampia vetrata posta a mezz’altezza di una parete, con una stretta apertura lungo il bordo inferiore per consentire il passaggio di documenti. Su un lato ci sono un pulsante ed un cartello con su scritto “suonare”. Ai lati della vetrata due brevi pareti delimitano lo spazio davanti allo sportello: forse servono a garantire una certa privacy ma in realtà, per farsi sentire dall’infermiere all’interno, le persone devono alzare la voce che le pareti contribuiscono ad amplificare. Non c’è musica di sottofondo nella sala d’attesa, piuttosto un rumore sordo, che proviene dall’esterno. Vicino all’unica finestra della sala c’è un cosiddetto totem, una sorta di pannello elettronico che si regge su una base a terra. Sullo schermo sono riportati il numero di pazienti in attesa e quello dei pazienti in trattamento per ciascuno dei colori del triage, che qui prevede anche un misterioso quanto inquietante colore nero. I numeri si riferiscono alla situazione del Pronto Soccorso non solo di Monselice ma anche dell’ospedale di Este, una cittadina distante una decina di km, che appartiene alla stessa ASL.
Mentre leggo un avviso che invita a non accedere al Pronto Soccorso per problemi di scarsa rilevanza sanitaria, per non rallentare il servizio per i malati più gravi, mi chiedo se in genere non ci si rivolga al Pronto Soccorso proprio perché non si conosce il grado di gravità della propria condizione. Sulla parete adiacente al totem vedo affissi alcuni avvisi scritti in lingue straniere: inglese, francese, russo, arabo e cinese. Il corrispondente avviso in italiano informa sulle modalità di accesso al servizio di Pronto Soccorso, sui criteri del triage e sull’eventualità di dover pagare la prestazione sanitaria se non si rientra nelle condizioni elencate.
Provo ad andare in bagno ma quello nel corridoio è chiuso, allora vado nel secondo, uno stanzino spoglio e con la porta senza chiave ma perlomeno pulito, forse anche grazie all’esortazione di cartelli come questo.
Nella sala d’attesa ci sono una decina di persone, tutte sedute su sedili da tre posti. I sedili sono disposti su due lati della sala, rivolti verso lo sportello di accettazione. C’è una coppia di giovani ed una di anziani, due donne forse maghrebine, due uomini ed una donna soli. Molti di loro maneggiano un cellulare, forse per ingannare il tempo. Alcuni tengono in mano un foglio di carta. Più tardi scopro che viene consegnato al termine del triage, sostituisce il braccialetto di plastica visto in altri Pronto Soccorso.
Ogni tanto un’infermiera si affaccia nella sala d’attesa chiamando a voce alta il cognome di una persona in attesa che si alza e la segue verso il corridoio che conduce agli ambulatori di visita. Dalla porta automatica entrano i pazienti condotti in autoambulanza o in auto; quelli in barella, accompagnati dagli infermieri, vengono subito portati all’interno dal personale ospedaliero. Gli altri si accomodano nella sala d’attesa.
Arriva una coppia di anziani che si avvicina allo sportello del triage; l’uomo della coppia parla per conto della donna, che sembra sofferente e, come spesso accade alle persone d’età avanzata, si rivolge a voce alta all’infermiere forse con la speranza che ricambi il tono, facilitandogli l’ascolto. Spiega che la moglie è stata male durante la notte accusando un disturbo che egli definisce “patarella”, indicandosi il petto. Involontariamente, ma inevitabilmente, ascolto anch’io e, pur intuendo che si riferisca a qualche problema cardiaco, mi chiedo di cosa possa trattarsi. L’infermiere, giovane, lo guarda un po’ perplesso ma gli viene in aiuto una sua collega più anziana che, rivolgendosi in dialetto alla coppia, appura subito che si tratta di tachicardia. Sorrido dentro di me, pensando che il termine dialettale è quasi onomatopeico, mi ricorda la tarantella, ma non credo sia altrettanto piacevole. L’infermiera intanto continua a fare domande alla coppia, che sembra tranquillizzata soprattutto dal fatto di aver trovato qualcuno che abbia capito ciò che intendevano. Ricevono il solito foglio e si siedono nella sala, confortati.